Niriana o del silenzio. Giuseppe Bella e il gioco dell’inquietudine
Recensione di Rocco Giudice. In copertina: “Niriana o del silenzio” di Giuseppe Bella, Qed Edizioni, 2024
Ci sarà modo di soffermarsi più diffusamente sui cinque racconti di “Niriana o del silenzio”, di Giuseppe Bella, libro fresco di stampa per le edizioni Qed, in via di emersione nel mare magnum dell’editoria nazionale. A titolo di “controllo di qualità”, per il momento, consideriamo il racconto eponimo: nemmeno tutto, ma solo per un passaggio cruciale, piuttosto lungo e complesso quanto ricco di contenuti essenziali.
Siciliano di Acireale, Giuseppe Bella ha all’attivo una lunga frequentazione, in qualità di lettore attento, di quella narrativa che si è tenuta ai margini rispetto alle linee di forza novecentesche; e facciamo a tal proposito i nomi di Tozzi e Landolfi, ma senza stabilire filiazioni dirette o affinità elettive. Basterà qui dire che questa ideale “consanguineità” non rientra nei canoni italiani oggi in voga, e neppure nei codici siciliani ratificati: e lo si verifica agevolmente sulle pagine dei racconti già pubblicati da Bella, fra cui citeremo quelli raccolti in “Congiure celesti” (1992), “L’attesa di Saturno” (2009), “Gli angeli di Ittar” (2015) e fra narrativa e saggistica, il confronto su pittori contemporanei che figurano in “Crudeli tenerezze” (2012).
Ma si diceva di un passaggio piuttosto articolato e su di esso focalizziamo la nostra attenzione.
Un incontro con “omini straordinari” di Lettere per averne lumi; duelli dialettici a distanza ravvicinata, se pensiamo al duello fra siciliani che si accende fra le pagine di questo racconto di Giuseppe Bella: ma come se la tenzone avvenisse a passo di danza. Una danza con gli spettri o spiriti magni letterari, tenuto conto del loro sdoppiarsi o darsi in formato e pluribus unum, nel contrarre in una fisionomia, nel nome, nella figura, nelle parole quelli che sono i caratteri di più di uno di essi: duplice operazione di sapore borgesiano.
Catalizzatore, con nome e cognome, Manlio Sgalambro (il filosofo che volle essere o valerli tutti, i filosofi), che Giuseppe Bella omaggia come non dirò (comprate il libro, non costa neppure tanto, lasciate stare le Valerio e altri frutti di stagione che sbocciano al mercato e sotto l’effetto serra del sole dei media). Sgalambro da Lentini, concittadino di Gorgia, fondatore della retorica, e del Notaro Jacopo, da cui si parte la letteratura in volgare, è chiamato al proscenio della pagina dal protagonista: in prima istanza, come oggetto di discorso, non quale locutore né interlocutore.
Poco dopo, però, il travestimento onomastico di Leonino non ne smentisce le fattezze reali, annotate ruga per ruga da Bella, cui questa seconda ipostasi di Sgalambro come personaggio fa da controfigura: e il nome è un doppio dalla doppia faccia, richiamando nella desinenza Bufalino, altro nume tutelare e dispensatore di letture che sarebbe meglio non perdere d’occhio: mentre la radice su cui è innestato quel morfema suffissale (chiamiamolo così) è Sciascia, esplicitamente tirato in ballo per una questione di interpretazione del dipinto La Tentazione Di Sant’Antonio, di Rutilio Manetti, una sorta di chiave d’accesso o di lettura in Todo Modo: dove è tutto un gioco di specchi fra spiriti e spettri, doppi e misteri e doppi misteri.
C’è, poi, il titolo onorifico di Maestro conferito dal protagonista (cui, secondo tutte le convenzioni narrative, tocca spesso fare da portavoce autorizzato e più o meno fedele dell’autore) a Leonino. E questo appellativo, col dialogo che i due intrecciano a partire dal dipinto, fa venire in mente il Borges di uno dei racconti più belli (e davvero commoventi: in forza della frase, una sola, come ultimo, finale sigillo) del grande scrittore argentino, “La rosa di Paracelso”, che vale tutto Il Nome Della Rosa di Umberto Eco, che tanto snobbava Borges da volerlo come cattivo e in modo trasparente nel calco onomastico di Jorge da Burgos nel romanzo che gli diede la fama mondiale come romanziere.
Un dialogo serrato o doppio monologo si instaura fra i due, Maestro e pupillo (in senso oculare, verrebbe da dire) che stravede, per leggere in profondità volto e parole del patrono: a chiudere lo scambio, una risata, oggetto dell’opera smarrita di Aristotele nel “Nome della rosa”. Una risata che giunge alle lacrime per farsi di pianto, cui è spinta la stessa delusione che, nel racconto borgesiano, è provata da Johannes Grisebach, disposto a pagare perché Paracelso ne faccia un discepolo, nel constatare che il Maestro è solo uno squallido ciarlatano: ha gettato nel fuoco del camino una rosa, dalle cui ceneri non ha saputo trarre con l’arte magica il fiore.
Invece, non appena lasciata la stanza il giovane arrogante, che solo da quella delusione pedagogica potrebbe trarre profitto, in una scienza che non può essere comunicata, ma solo conquistata, Paracelso “raccolse nell’incavo della mano il piccolo pugno di cenere e disse una parola. La rosa risorse”. Questi intrecci, incroci a più incognite, camuffamenti, del resto, a viso aperto, producono, in “Niriana o del silenzio”, uno stesso effetto, se non magico, straniante: una metamorfosi avviene per indizi sfuggenti, per segni nascosti e indecifrabili: verbali, non visivi, come il dipinto di Manetti.
Dopo tante parole, infatti, entra in gioco, con Niriana, il silenzio. Una presenza numinosa, Musa o diavolo come nel dipinto di Manetti: non ci sono gli occhiali a discriminare ciò che nella sua immagine è adombrato. Una presenza che attraversa il racconto come un trait d’union che si svolge ai margini della scena: e solo quando le parole lasciano il posto al silenzio in cui il protagonista precipita vediamo Niriana occupare la scena.
“A un certo momento, mi viene di cantare, però, per amore e rispetto alla natura, che qui mantiene il medesimo silenzio di Niriana, vasto e sapiente, mi limito a un mormorio di nenia conventuale (…) Poi, lei appare. Quasi sempre si staglia nel vano di una porta, vicino al punto in cui ogni mattina insceno il mio rito” (pagg. 14-15).
Volendo dare a Niriana una qualche sembianza, che il protagonista lamenta non stia in nessuna descrizione possibile, sfuggendo al potere della parola, potremmo rinvenirla, come sembra da questa citazione, in quella di una gatta, demone custode silenzioso e curioso di ogni atto, che finisce per dettare senza mai aprire bocca. Nulla di se stessa, Giuseppe Bella le fa dire, come nulla fa dire al protagonista in modo incontrovertibile su di lei: il silenzio non è alla portata delle parole.
Non che esse manchino: ma non sarà il silenzio a dirci cosa le ha ‘disattivate’, messe fuori gioco, dando scacco al personaggio e cogliendo di sorpresa il lettore. “Dove sta lei cala come un’ombra, una calma; e i rumori ci si spengono” (pag. 25). Onnipotenza del silenzio: da un’immagine che non è ancora di gatta a una figura che non sarà mai solo di donna. Il cerchio si chiude: Nuda nomina tenemus, finale del romanzo di Eco: e la “parola a bassa voce” del Paracelso di Borges si mesce alla “nenia conventuale” del protagonista del racconto di Giuseppe Bella.
“Ê settembre e, di sera, fa già freddo, ma non importa: butto i ciocchi nel camino e sfrigolando la fiamma svampa” (pag. 28): questa la conclusione di Niriana o del silenzio.
Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, ammonisce la nota e tautologica sentenza di Ludwig Wittgenstein. Una parafrasi più funzionale, mi permetto di azzardare, è che del silenzio non si può dire nulla, qualunque cosa esso nasconda. Ben più che creatura o figura di esso, Niriana è come l’incarnazione del silenzio, un angelo in terra di questa verità: che in principio era il silenzio.
Ma nessuna nemesi o gnosi blasfema letteraria o teologale: grazia o maledizione, il Verbo non seguì al silenzio, perché esso è il principio: di una unità inscindibile fra pensiero e essere, la cui fede non viene meno in queste pagine di Giuseppe Bella.