L’eternità viene dagli astri. Auguste Blanqui e la replicazione della vita
Recensione di Martino Ciano. In copertina: “L’eternità viene dagli astri” di Auguste Blanqui, Adelphi, 2023
Forse fu la sua voglia di uscire da quella angusta prigione, la cella di Fort du Taureau in cui era rinchiuso per tenerlo lontano dalla Comune di Parigi, che ispirò Auguste Blanqui, esponente di spicco del socialismo utopico. Mentre in città la Comune si infervorava, dando vita ai suoi moti epocali, lui scrutava dalle sbarre il cosmo, domandandosi l’inizio del tutto, l’origine della vita, la continuità della specie, la riproduzione di ogni cosa.
“L’eternità viene dagli astri” fu deriso dai detrattori, fu definito il pamphlet di un folle, di un uomo che aveva perso la ragione dopo aver tentato invano di mettere fine alle ingiustizie e alle disuguaglianze.
Blanqui passò anni e anni della sua vita in carcere per i suoi gesti “sobillatori e cospiratori”. Il suo pensiero anticipò ciò che Nietzsche formulò più tardi nel suo “eterno ritorno”. Borges e Benjamin rimasero sbalorditi davanti a ciò che lessero ad anni di distanza da quel 1871, momento in cui Blanqui mise nero su bianco le proprie visioni.
Come si replica la vita?
La natura crea in serie ogni elemento, così lo spazio senza limiti dell’Universo viene popolato da repliche. Repliche sono le stelle, i pianeti, gli uomini, qualsiasi cosa. C’è una sola differenza tra un mondo e l’altro, in nessuno di questi si vive la stessa cosa; se in un luogo abbiamo deciso di compiere un’azione, in un altro faremo ciò che qui abbiamo negato. Insomma, Blanqui senza saperlo teorizzò il multiverso, di cui oggi si parla anche nel mondo scientifico.
Il cospiratore creò la sua teoria attentando a uno dei segreti che la natura meglio aveva nascosto. Noi non sappiamo se ciò che scrisse, o ciò che gli scienziati proveranno a svelare, sia vero, possibile o solo una stravagante ipotesi con cui l’uomo, in ogni epoca, sfida la sua angoscia per la morte.
In questo breve trattato, Blanqui mise in ridicolo le conoscenze dell’epoca, dando prova di muoversi bene tra le nozioni di quegli anni. La sua ribellione partì in solitaria da una cella e terminò tra le stelle, le uniche forse alle quali demandava le sue speranze di vivere in un mondo più giusto.
Utopia o profezia?
Ma se l’utopia, anche se qui si scorge l’idea pessimistica di una ripetizione incontrovertibile e noiosa, è la materializzazione di sogni ripetuti a se stessi, Blanqui appare come il mago che incanta, che spinge la sua rivoluzione metafisica in un terreno politico. Se questo è l’Universo, allora vano è il potere, così come lo sono la prevaricazione, la lotta per la supremazia e tutto ciò che concerne l’egoismo dell’essere umano.
A quale legge è piegato l’uomo? Da quale destino siamo indirizzati? L’universo è anarchico, indipendente, impossibile da imbrigliare e da scrutare? Si lascia capire o ci inganna in continuazione? Blanqui appare tra queste pagine come un novello Qoelet, forse uno dei tanti apparsi in epoche diverse, anch’egli replica di una introvabile copia originale. Fantasia o verità, intuizione o divagazione senza pretese dettata dalla disperazione dell’isolamento in carcere, questo libro ci stuzzica, ci intimorisce, ci delizia e ci prende per mano.
A noi tocca farne qualcosa.