La fortuna del Greco. Vincenzo Reale e “la ricerca della serenità”
Recensione di Martino Ciano. In copertina: “La fortuna del Greco” di Vincenzo Reale, Rubbettino, 2024
La fortuna si cerca o è un dono? E davanti alle pagine di questo libro che significato daremo alla parola fortuna? Essa è per caso qualcosa che si può comprendere solo alla fine della nostra esistenza, magari quando, tirando un sospiro di sollievo per tutto ciò che abbiamo affrontato, potremo dire di avercela fatta?
Forse è proprio questa la fortuna di cui Vincenzo Reale ci parla. È quella del superstite che, con la giusta sobrietà, agisce e affronta le avversità, accettando con piglio stoico la sua umanità e la sua fallacità.
Ecco Antonio il Greco, ossia un vaccaro che aspira a diventare muratore, che si fa uomo nella Calabria arcaica dell’Aspromonte, che emigra per lavoro, che torna nella sua Carafa Nuova per costruire una casa, anche se intorno a lui il terremoto ha spazzato via le altre. Ha voglia di riposarsi tra i suoi affetti. Ci è riuscito, ma non è stato semplice.
Suo compagno di avventure è stato il cugino, soprannominato il Tozzolo. Lui era uno di quelli che non aveva voglia di lavorare, di faticare, di soffrire; eppure, è stato sempre al fianco del Greco. L’esordio di Reale racconta lo spirito della Calabria, di quella vera, che non ha paura di mostrarsi con le sue contraddizioni, che non si lagna troppo, ma che con dignità porta avanti la propria storia. È l’antica saggezza che penetra la “necessità”, la quale lega tutti a sé, siano essi facoltosi o disgraziati, vaccari o vagabondi, criminali o uomini pii.
Tra le pagine del libro domina l’Aspromonte, Olimpo in cui è possibile entrare purché se ne abbia rispetto. Spiriti, santi e streghe stanno qui e abitano con gli uomini. Suggeriscono la via da prendere, talvolta ti fanno cadere in fallo, spesso sono nemici della volontà umana. Sono entità che spiano la vita, che guardano con invidia le gesta degli individui. Eppure, Antonio e suo cugino non si sentono “agiti da” quel mondo invisibile e misterioso; loro vanno incontro alla vita, convinti che le Furie vendicatrici sono in agguato e non fanno distinzioni.
Ma c’è un altro aspetto interessante: questo popolo di combattenti, che sa ridere e piangere, che vive di ragione e di felice follia, che pesca a piacimento dai decaloghi del dionisiaco e dell’apollineo, non sa nulla delle grandi disquisizioni etnologiche; anzi, se ne infischia, eppure contiene in sé lo spirito delle grandi scuole filosofiche, nonché la nostalgia dell’essere contemporaneamente a casa propria e lontano dalle origini.
Amore e odio non si dominano, ma si vivono e si accettano; essi agitano i corpi, promuovono le azioni. Questi uomini esistono nelle emozioni, si abbandonano al loro volere; tutto è tragico, anzi sarcastico.
Antonio il Greco, quindi, avrà avuto la fortuna di tornare nella propria patria, di aver viaggiato e sofferto, di aver riso e pianto, d’essere stato vivo persino tra la morte, “dell’essere stato e del non poter mai non essere”. Reale mette in mostra il suono intimo di una Calabria che è culla di una sapienza fatta di esperienza collettiva; una sapienza capace di riposare anche nel mezzo della disgrazia.