Libellula, o dell’ultima pesca

Racconto di Giuseppe Bella. In copertina “L’ultima pesca”, opera di Alessandro Finocchiaro. La foto è stata fornita dall’autore
Non si era mai vista una notte così bianca. L’autunno ci aveva sorpreso con le sue nebbie; poi, con la tormenta, tra ululi lupigni, ci aveva assalito un feroce inverno. Dopo l’ultima apparizione della Libellula, che nel cielo di piombo disegnava le sue danze, avevamo caricato le reti sul gozzo, molate le fiocine, armato le lenze. Sarebbe stata l’ultima pesca. Mancavamo di tutto.
Erano giorni in cui, quando il sole appariva, le guazze luccicavano di ghiaccio, le erbe non riuscivano a forarlo e morivano nel loro stesso boccio. Le febbri accerchiavano gli armenti. Dalle capre, tra belati di sgomento, si mungeva solo caglio. A giro d’orizzonte non si scorgevano altri voli che quelli dei corvi. Alcune volte il gheppio si librava nel gelo, e illuso di una preda si tuffava, sparendo al di là di un promontorio con rocce color prugna. Avevamo disponibile un mare non più ampio di una pozza; lo chiudeva una barriera di scogli: erano ammassi di lava spenta, insolitamente ancora viva nel suo profondo; nelle notti illuni appariva come un catrame ribollente.
Dell’intero villaggio eravamo rimasti validi io e un vecchio, ancora svelto, per quanto la sua pelle fosse tutta riarsa e il suo volto una maschera impassibile; gli altri si consumavano di inedia nei loro giacigli.
Per antica consuetudine peschiamo di notte. La luna in genere ci è benigna, al suo richiamo non possono sottrarsi neanche le viscide creature che guazzano nel fango; la superficie dell’acqua vibra in ogni suo punto, animata da infinite bolle; non c’è pesce che non smani di giungere in volo al soglio del suo adorato satellite.
Quella notte dunque liberammo l’ormeggio, e il gozzo cominciò agilmente a fendere le acque; il vecchio manovrava al timone, mentre io, a prua, allestivo le lenze. Già aggallavano le spigole argentate, la cui devozione alla luna ha qualcosa di mistico. L’aria era bruna, il freddo tagliente. Lo sciabordio annunciava una traversata tranquilla; l’animazione che si coglieva sotto il pelo dell’acqua prometteva una pesca copio-sa. A un tratto avvertii come un alito di vento al di sopra della barca; da un punto alto in linea con la poppa giungeva dell’aria mossa come da un ventaglio. Il vecchio fu il primo a volgere indietro la testa: la sua esclamazione di sorpresa, quasi una bestemmia, mi distolse dall’opera, trascurai di tirare a bordo le spigole abboccate e giratomi sul busto vidi anch’io ciò che aveva suscitato lo stupore del mio compagno.
La Libellula, che mai prima era ricomparsa dopo aver esaurito nel cielo d’inverno il repertorio delle sue danze, eccola lì, più imponente che mai: e le sue quattro ali fremevano, il suo addome oblungo spremeva da sé un fumo sottile, bianchissimo. Restammo a guardarla, ammirati e, insieme, in preda allo sconcerto, non sapendo a qua-le evento questo prodigio preludesse. Intanto il fumo diventava una nebbia, tingeva di
bianco le acque del mare e l’aria della notte. Scambiai uno sguardo inquieto con il vecchio. Mi ero spostato verso di lui. Nella convulsione dei gesti rischiai di perdere l’equilibrio, mi appoggiai a una traversa. Percepii sopra la mia testa muoversi qualcosa che subito si posò sul mio posto di prua. Definire anche questa creatura una Libellula sarebbe possibile, ma nello stesso tempo sarebbe inesatto. Le ali erano identiche, non così l’addome: c’era un busto, concluso da una testa d’insetto.
Ci rivolgeva la schiena. Le sue zampe artigliavano la punta della prua. Il gozzo si muoveva veloce verso il largo; il motore era spento. Una insolita calma si impossessò del mio corpo. Dissi qualcosa all’indirizzo del vecchio. Non mi rispose, ma al biancore della luce potei notare il suo viso: sorrideva felice, come se avesse ritrovato la vera terra, o un antico compagno