Il mio colore
Racconto di Wanda Lamonica
Quando sono nata, mamma e papà hanno subito litigato per il mio nome. Allora nonna Delia mi ha preso in braccio e mi ha cantato la mia prima ninna nanna, coprendo le loro voci astiose con la sua melodia fatata. A lei non serviva un nome, per amarmi. E quando i miei genitori hanno deciso di chiamarmi Alba, lei ha continuato a chiamarmi Lulù.
Mamma è molto bella, è un’attrice di teatro. Nove mesi, dentro di lei, sono stati piuttosto complicati. A volte piangeva a singhiozzi, a volte rideva come se un rastrello di piume le scivolasse, a rallentatore, sui fianchi. A volte urlava e si disperava. E solo dopo capivo che stava recitando. Ma oggi mi chiedo se anche le notti in cui piangeva in bagno, in accappatoio e senza un copione in mano, stesse davvero provando una parte.
Ho i suoi stessi capelli biondi e la sua erre moscia. Ho l’armadio pieno di vestiti fucsia perché il fucsia è il suo colore preferito. Io non so ancora quale sia il mio colore preferito. Oggi compio 11 anni e anche la torta è fucsia. La detesto.
Nonna Delia mi ha regalato un diario. Ho deciso che ci voglio scrivere solo cose belle che non facciano stare in pensiero la mamma (tante bugie, insomma). Mi dispiacerebbe saperla triste per colpa mia. Però ho già un quaderno dove, invece, annoto tutti i miei segreti. Parlo di quando sono malinconica, di quando mi confido con Pezzapezza, la mia bambola di stoffa, dei momenti in cui mi alleno di nascosto in bagno, davanti allo specchio, con decine di scioglilingua, per tentare di togliermi una volta per sempre l’erre moscia. La detesto.
Papà fa l’architetto. Realizza disegni monotoni e tristi. È un uomo molto paziente e allegro. Quando mi racconta la sua giornata, prima di darmi il bacio della buonanotte, mi fa ridere così tanto che la mamma, dal salotto, ci dice di smetterla di fare i pagliacci.
Poi lui la raggiunge in camera da letto e da lì, li sento litigare per qualsiasi cosa. Mamma sa impostare bene la voce, prendere le giuste pause. Avrebbe successo anche mentre bisticcia, volendo. Peccato che il pubblico, qui, sia sempre e solo io e che lo spettacolo sia puntualmente penoso. Il mio papà risponde sempre con discorsi brevi, stentati. Forse è stanco. Forse le parole ci mettono un po’, a ricostruirsi, dopo che mamma gliele smonta regolarmente tutte.
Quando papà esce dalla camera, è un bambino sconfitto. Ma non come quando perde con me alle gare di solletico o a Sasso/carta/forbice. Esce con gli stessi occhi umidi di quando taglia gli anelli di cipolle da aggiungere ai panini unti e goduriosi che ci prepariamo le sere in cui la mamma non c’è. Oggi è il mio compleanno. Mamma e papà si sorridono tanto e si aiutano anche troppo, mentre sistemano i palloncini in giardino, per la mia festa, in un’armonia quasi surreale. Gli invitati li ha scelti la mamma. Alcuni bambini nemmeno li conosco. La festa è carina, tutto sommato. Ma quando mi si avvicina Stella-la-iella, la figlia antipatica del Dottore, la gioia mi finisce di colpo.
“Con chi andrai a stare, quando i tuoi genitori si separeranno?”
” Come ti salta in mente?” , le chiedo allibita.
” Me l’ha detto mio padre. Svegliati, ranocchia”.
Sento gelo nello stomaco ma non piango. Mi chiederanno di scegliere con chi andare a stare? A chi dei due voglio più bene? Io non so nemmeno qual è il mio colore preferito. Non so di certo come si divide un cuore. Sono confusa. Deve essere la verità, questa, perché mi sta facendo tanto male. Raggiungo nonna Delia, correndo. È seduta, ha il viso spento. Mi abbraccia, ha gli occhi dolci. Lei sa. Da sempre, lei sa.
Mi siedo sulle sue gambe. Mi culla.
“Nonna, nonna Delia, mettiti a cantare”.