Il convento dei segreti. Giada Trebeschi e la spensieratezza della lettura

Recensione di Gattonero
Quando si arriva a una certa (mai ben definita) età, nella lettura non c’è più la ricerca di nuove conoscenze, non si ha più la necessità di incamerare nuove informazioni in vista di un possibile loro uso in futuro, la voglia di studiare è ormai smarrita… quel che c’è c’è, quello che manca (che è la più parte) non è più possibile acquisirlo.
Ecco perché la lettura di un libro diventa puro godimento, in ogni libro si vive un carpe diem letturale (signora Crusca mi perdoni), la pagina fuggente da cogliere senza essere costretti a trarne altro che un umano, immediato piacere.
E questo libro me lo ha dato appieno.
La trama la dico con poche parole, poiché sono contrario a dare a possibili altri lettori il piacere della scoperta avanzando nella lettura, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo.
In un secolo, il 1600, appena post-medievale, che tanto materiale ha offerto a chi ne ha saputo cogliere le anime e le sfumature, una ragazza viene chiusa adolescente in un convento, per meri calcoli economici, in un’epoca che vedeva nei soli maschi il futuro di casate o di regni. Ovviamente si tratta di un convento femminile, e già questo fa pensare ai segreti richiamati nel titolo.
La vicenda si svolge nella seconda metà del secolo citato, e si sviluppa tutta nella parte sud orientale della Sicilia, per poi risalire, al trotto e al galoppo, verso lo Stretto.
Parlando di conventi, con riferimento a queste strutture, d’acchito non viene da pensare ai conventi maschili, che pure sono stati nel tempo altrettanto numerosi di quelli femminili. Sarà perché, questi, la letteratura ha preferito raccontarli come monotoni e noiosi luoghi di studio e preghiera, ovvero come rifugio privilegiato a fuggiaschi da persecuzioni o pestilenze.
Era sicuramente più facile avere accesso in visita in un convento maschile, che poneva come condizione assoluta di appartenere, appunto, al genere maschile. In quelli ospitanti monache di clausura, gli unici maschi ammessi erano, di solito, solo gli ecclesiastici di Santa romana Chiesa e, con permessi speciali, i familiari più stretti.
In entrambe le forme di monastero era previsto un locale apposito dedicato a parlatorio, delimitato da fitte grate che, oltre a dividere fisicamente i dialoganti, impedivano contatti troppo ravvicinati tra loro. In quelli femminili, oltre alle grate, un velo era ulteriore ostacolo alla visione dei volti delle monache nei rari incontri con i visitatori, di solito, come detto, specificamente familiari. Ed è nel parlatorio di questo convento che prende forma lo sviluppo del racconto.
Pochi, brevi incontri in cui le parole hanno una voce bassa che si percepisce appena, mentre gli sguardi e i sentimenti esplodono in una vorticosa tacita passione. Che prosegue nel silenzio delle celle.
Nei monasteri benedettini, maschili e femminili, il motto comune era (e forse ancora è) il noto Ora et labora, prega e lavora. Dove il pregare era, nelle due versioni, più o meno simile, sia nelle ore specifiche delle orazioni che nelle modalità delle stesse. Il lavorare invece era opportunamente indirizzato verso le umane tendenze dei generi di appartenenza.
Così nei monasteri maschili venivano creati incunaboli, arricchiti da miniature e disegni che bene si sposavano con la modernità della stampa a caratteri mobili, nata appena un paio di secoli prima.
In quelli femminili le ore di preghiera si alternavano a lavori di ricamo, di giardinaggio, di cura e ricerca di erbe curative e altro ancora.
Ma, nel nostro caso, più che altro in cucina. Con un indirizzo culinario strano per un convento: la pasticceria. Confesso di essere ancora stupito che questa attività, indicata solitamente come uno dei principali peccati di gola, in quel convento fosse ritenuta così importante al sostegno della sua economia, a tal punto da passare oltre ai periodi delle preghiere quotidiane pur di svilupparne la produzione. E il conseguente consumo, interno ed esterno.
Gli abati e le badesse, rispettivamente maschile e femminile, erano gli amministratori delegati, per quello che riguardava l’economia, e direttori religiosi per la parte, appunto, religiosa.
La storia raccontata ha, nel suo insieme, una trama che ricalca altri romanzi che ruotano intorno ai conventi. Peraltro con uno sviluppo che presenta non poche situazioni originali che lo rendono più piacevolmente leggibile.
Il libro racconta in particolare di una badessa che alla preghiera dava tutta l’importanza che l’ordine di appartenenza imponeva, però senza remore a farla passare, la preghiera, in secondo piano quando le esigenze materiali del convento lo esigevano. (Da allora le cose sono cambiate; sì, ma in peggio: laborare est orare, lavorare è pregare, ha da tempo preso il sopravvento. E nel laborare attuale non è più la manualità a operare, ma impegni finanziari, talvolta azzardati, che finiscono per annacquare i possibili benefici della preghiera,
Come questa badessa, molti altri religiosi aiutano, nel corso del racconto, la loro fede, sovente scambiata per un sacco vuoto che per stare in piedi necessita d’essere costantemente riempito. Di pesanti denari.
Due punti nel libro mi hanno portato alla mente I promessi sposi del Manzoni, antesignano dei romanzi storici o para-storici. Il primo è stato una frase, breve, composta da un articolo, un aggettivo come soggetto e un verbo; il secondo, ripetuto varie volte, una sola parola, un aggettivo.
Scoperti a lettura inoltrata, come il trillo di un campanello di ricordi ormai accantonati. Ecco, questi due punti mi agevolano nel trattare di questo romanzo senza svicolare troppo nei dettagli. A grandi linee si tratta di un promessi sposi in chiave sicula, e il titolo poteva tranquillamente essere I prumisi spusi, che non avrebbe avuto nulla da invidiare agli sposi manzoniani. Con in più un modo di raccontare moderno, più secco, più conciso nella descrizione degli ambienti in cui si svolge, con una libertà di termini ed esposizione di azioni che il Manzoni se li sognava.
Le badesse e gli abati ci sono, il secolo in cui vengono collocati i fatti raccontati pure; preti e frati che, oltre a essere pavidi appaiono soprattutto avidi, e cavalieri affatto senza macchia… Tutti con le loro umane debolezze, accentuate da buone dosi di malvagità congenita, che non esitano a ricorrere a violenze per mostrare al mondo la loro forza. Una parte importante del romanzo è dedicata a padri, madri, figli (maschi) che, raggiunta una buona posizione, dedicandosi agli affari e al potere acquisito, non esitano a mettere in campo ogni attività che consenta di mantenere lo status raggiunto; abbinando ad azioni abominevoli preghiere e donazioni che ne consentissero il perdono religioso.
Intanto eliminando la parte femminile dei casati, seppellendo le donne, le ragazze, le bambine, quando possibile in convento o, in alternativa, destinandole a mansioni che le cancellassero dai diritti di successione.
Il romanzo è impreziosito da dialoghi in vernacolo, comprensibili nei vari contesti di inserimento, ma che l’Autrice ha preferito tradurre al temine di ogni capitolo che li riportava, onde evitare possibili interpretazioni soggettive che potessero disperdere il calore e il colore di quel dialetto.
Un’ultima nota: nel tomo manzoniano ci sono lunghi passaggi che inducono la noia, forse perché un tempo forzati da uno studio che per anni privilegiava questo, in parte attenuando il meritato piacere di quella lettura. In questo romanzo non ci sono momenti tediosi, e non solo per il fatto che non sarà oggetto di studio, ma proprio perché non dà il tempo per provarli tanto è incalzante; quando si sospende la lettura per motivi i più vari, già si pregusta il rientro prossimo nel turbinio di lotte, di sogni, di vita e di morte che propone.