Giurato numero due. “La giustizia è verità?” Il film testamento di Clint Eastwood

Giurato numero due. “La giustizia è verità?” Il film testamento di Clint Eastwood

Recensione di Gianni Vittorio. In copertina un particolare della locandina del film tratta dal web

Clint Eastwood non finisce mai di stupire. Come il vino, invecchiando migliora. Infatti il maestro ci regala ancora un’ennesima perla della sua vasta filmografia. Stavolta ritorna al legal thriller/dramma giudiziario.

“Questo sistema per quanto imperfetto è la nostra migliore possibilità di trovare una giustizia”. Cosi inizia “Giurato numero 2”. Tutto gira attorno al concetto di giustizia e alle sue tante sfaccettature.

Cosa vuol dire veramente giustizia? Giustizia è verità? Il senso di colpa che affonda sull’animo umano ci fa riflettere sull’impianto giudiziario imperfetto degli Usa. Siamo capaci di giudicare un uomo processato per omicidio? Il regista lavora per sottrazione, noi sappiamo già dopo pochi minuti chi è il vero colpevole, ma quello che interessa davvero è riflettere sul senso morale della giustizia.

La prima inquadratura è magnifica. Dopo i titoli di testa, che mostrano la Dea della Giustizia bendata con la bilancia in una mano, osserviamo il volto di un’altra donna, anche lei con la benda sugli. È la moglie di Justin Kemp (il giurato n.2), che sta per avere un bambino da lui. Un gioco di simbolismi che si ripeterà fino alla fine rendendo circolare l’intera narrazione.

Si gioca sempre sull’elemento di visibile e invisibile, ciò che è evidente e ciò che è nascosto. L’originalità del film sta proprio nello stringere il focus sul protagonista, giurato antieroe, e il suo stesso dilemma: confessare di aver commesso lui il delitto oppure sottrarsi alla giustizia, facendo in tal modo condannare un innocente?

Con una regia accompagnata da una fotografia limpida (alternando interni ed esterni con una sapienza registica di alto livello) Eastwood ci fa entrare nella psicologia di coloro che compongono la giuria, facendo crollare gradualmente le certezze che avevano, basate soprattutto su preconcetti e stereotipi (il soggetto bullo e disadattato prototipo del colpevole). Il film diventa così un atto di accusa nei confronti del sistema giudiziario americano, talmente fragile da far prevalere i nostri pregiudizi sulle prove concrete (ad esempio, non si troverà mai l’arma del dell’omicidio).

Incredibile il finale apparentemente sospeso (l’incrocio di due sguardi tra Justin e il pubblico ministero) come se fosse una condanna anticipatrice di un (possibile) verdetto di colpevolezza. L’ambiguità di fondo di Justin lo fa diventare insieme giustiziere e colpevole, e questo lo condurrà in un vicolo cieco senza possibilità di redenzione. Il dramma dell’individuo diventa dramma della nazione.

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