Fëdor Dostoevskij, quell’uomo felice della sua malattia

Articolo a cura di Martino Ciano – già pubblicato su Zona di Disagio

Lasciamo i giochi di potere a Dio, a noi ha lasciato la sua ira… la parola.

Questa frase è stata partorita dalle profonde pozzanghere della mia anima in questa sera di gennaio, mentre rileggo Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij. Mi sono trasformato nell’uomo-topo che cozza indomito contro il muro innalzato dalle leggi della natura.

Ah, quanto sazio ne ho ricevuto, signori miei. Mi sono lasciato perseguitare dalle parole di questo libro che avevo sepolto nella mia libreria. Seppellito ma sempre presente nella mia mente, perché ogni tanto mi sono sentito un uomo malato.

Con piacere ho goduto ancora una volta delle manie del protagonista, delle pulsioni del suo animo delirante. Ma cos’è il sottosuolo?

È quella parte della nostra coscienza in cui si deposita il nostro male, il nostro masochismo, la cattiveria che divora la bontà. Incarnando ruoli diversi e maschere pagliaccesche riusciamo a tenerlo lì, in silenzio, sottomesso, fin quando l’istinto decide di liberalo e si riprende la rivincita, facendoci finalmente sussurrare: io sono un uomo infelice. Infelice perché si vuole, si desidera, si lotta solo per il proprio bene.

Ma proprio il protagonista si domanda: è possibile che il nostro vantaggio sia sempre positivo? Sì, attraverso questo racconto Dostoevskij indaga il bene e il male, va al di là d’ogni razionalità e crea un personaggio che per la prima volta lotta per la sua rovina. Lo fa in maniera ponderata, ma spinto da una forza astratta, cui non sa dare un nome. E più il protagonista proverà a darle dei connotati, più essa diventerà sfuggente. E allora qui sta la grande intuizione dello scrittore russo, quella che muoverà orde di filosofi del ‘900 verso la metafisica dell’assurdo: il male è una contemplata negazione della vita e l’uomo la conserva nel suo sottosuolo; il male è l’abisso che si guarda con paura e con piacere. E l’origine del male è più misteriosa della vita.

 Ma c’è salvezza per l’uomo? Sì, Dostoevskij non lo esclude ma non è ottimista, bensì, possibilista. Come a dire a volte ci credo. Di qui nasce la figura di Lisa, la prostituta più angelica della letteratura.

Dopo una cena trascorsa con alcuni conoscenti, il protagonista si reca con loro in un bordello. L’unico motivo che l’ha spinto a seguirli è la vendetta che brama verso Zverkov, con cui ha precedentemente mangiato e bevuto. Ma il suo è più che altro un gesto di ribellione verso questo amico, ex compagno di scuola e ora vigoroso ufficiale dell’esercito. Il protagonista non ha un vero motivo per dargli uno schiaffo, vuole solo umiliarlo, fargli sentire ciò che lui prova come misero impiegato che passa il suo tempo libero a leggere e a fantasticare. Ma la sua rimane un’intenzione che sbuca dal sottosuolo e divora la sua anima. Ed è proprio in questo momento cruciale, in questa casa di perversione, che avviene l’incontro con Lisa.

Giovane, carina, spaesata. Di fronte a lei il male torna nel sottosuolo e lui, il protagonista, ha per lei parole di redenzione, di amore e di compassione. L’amore, l’unica cosa che conta e che va al di là delle ricchezze. Il nostro eroe è così colpito da questa ragazza che addirittura le dà il suo indirizzo, la invita a non vendere più la sua anima e il suo corpo. È come se volesse salvarla dal suo stesso destino, quello di rimanere un giorno schiava del proprio sottosuolo e di trasformarsi in una donna-topo perseguitata dal male.

E allora cos’è il male se non il risultato dell’umiliazione costante, del degradamento della coscienza dell’uomo, dell’incapacità di reagire. Ecco il perfetto eroe superfluo di cui  Dostoevskij ha riempito i suoi romanzi. L’uomo qualunque, sofferente, la cui reazione non muove rivoluzioni, ma indifferenza; che rimane lì, a morire, schiavo della sua ribellione sognata, immaginata. Cerca il bene e la pace ma è così sottoposto al male e allo scherno altrui, che si converte alla malvagità. Un profilo che Moravia rievoca nella figura di Michele nel romanzo Gli indifferenti e che troviamo anche nel breve racconto Giovanni Episcopo di D’Annunzio.

Ma quando Lisa si presenterà a casa del protagonista ecco che lui quasi la caccia. Si vergogna della sua povertà e per difendersi la calunnia e la maltratta. L’uomo-topo scoperto nella sua tana vuole sia vendicarsi di lei, sia riversarle addosso anche tutto l’astio che non è riuscito a scaricare su Zverkov. Ma anche in questo caso fallisce. Cade tra le braccia della prostituta, piange e ammetterà: sono un uomo infelice.

Il resto dovete scoprirlo voi.

Non ho parlato di questo racconto né da critico, né da studioso. Io sono solo un lettore che conosce la sua malattia: l’amore per la ricerca. E in questo mio commento non c’è traccia di disonestà, ma di idiozia… la bellezza che forse un giorno salverà il mondo.

 

NOTE

  1. Uomo-topo è stato utilizzato da Nabokov per descrivere il protagonista.
  2. Eroe superfluo è stato coniato dal critico Igor Sibaldi.

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