E celebrai la noia, almeno per un attimo…
Articolo e foto di Martino Ciano
Di un borgo resta la sua atemporalità, perciò sono corso qui in un giorno qualsiasi in cui si celebrava la noia, ché di noia c’è bisogno a volte, anche di vestirsi con spirito da perdigiorno. Innocuo mi sono addentrato tra vicoli e case con le luci spente. Apparteneva alla notte la vita rimasta qui, ché assonnata è stata la voglia di lamentarsi, mentre desto è rimasto lo stupore. Guardingo e timoroso sono andato a zonzo.
Ed è stato come attraversare un deserto con tante oasi. Davanti a ogni uscio stava seduto un ricordo, un vivido momento di tempo trascorso, e la forza della distruzione qui non ha prevalso. Ancora oggi è in ritardo, ancora lento è il suo passo. Eppure c’è da qualche parte il fantasma del nubifragio.
Distruzione audace, di acqua che si fa sciame di cavallette. Acqua… hai visto quel poco che c’era e hai abusato anche dell’ospitalità. O forse è sbagliato narrare così gli eventi, ché noi ti abbiamo sfrattato dal Vallone e tu sei solo tornata a casa, forse volevi essere accolta come un tempo, come nei decenni scorsi, quando avevi uno sbocco per la tua ira e la tua goliardia. Fa niente avranno detto coloro i quali, anni addietro, ti hanno modificato il corso, ché la tecnica può tutto, la matematica del cemento apre e sbarra nuove strade, ma calcola approssimativamente le conseguenze, perché qualcosa sfugge sempre agli uomini di penna. L’uomo semplice si affida alle parole degli avi e alla fatalità, ma non viene creduto neanche quando ci azzecca.
Così è venuto a prendermi il silenzio… e impalato, nel mezzo della piazza interdetta, ho guardato il cielo del 24 gennaio 2023. La luna e due pianeti a poca distanza l’uno dall’altro, è geometria fatale quella che si incunea nella disperazione della noia. Che ne è rimasto delle radici di un popolo che disincantato abita la periferia della provincia, a cavallo di città-perle che brillano poco se non per ingannare con il coraggio di andare avanti? E avanti sono andato, passo dopo passo, cercando le parole di mia nonna, ché da qui scese a valle, come tutti, per trovare conforto e speranza nell’ampia distesa della terra e per riflettere davanti al mare; fin quando anche lì, i geometri del cemento non decisero di trasformare, fare e disfare. E mai tempo si è perso, perché la bellezza ti chiede di fermarti, di ammirare l’opera, di non ritoccarla, di contemplarla, quindi di perdere tempo; la distruzione è invece ansia da prestazione, velocità di esecuzione, riempimento di spazio, metri cubi di materia davanti ai quali pregare solo un attimo. E case, e case, da distruggere, da mangiare; e un fiume trasformato in altro, e una spiaggia fattasi piccola piccola, ‘na labbra di fissa.
‘Na labbra di fissa è un termine ingegneristico coniato da un artigiano che ho incontrato nel borgo in quella serata di gennaio tra la noia e la voglia di apprendere. E così gli venne questa definizione, geometrica e suadente, poetica e disperata, volgare e vera. C’ha fottuto la voglia di diventare senza radici. Sono tornato a casa pensando che un altro giorno era passato e poi che il domani sarà… sarà cosa? Nessuno lo sa.