Articolo di Antonio Maria Porretti
“Specchio, specchio delle mie brame, chi è il regista più gagliardo e in gamba del reame?”
E senza attenderne la risposta, già l’impavido Damien Chazelle balzava al comando della sua smisurata troupe per realizzare e sfornare questa sua ultima, pantagruelica pellicola: Babylon. Nelle intenzioni (e smanie) del suo autore, un affresco formato Cappella Sistina per il grande schermo sulla Hollywood a cavallo tra il tramonto del muto e l’avvento del sonoro – tema non proprio originalissimo – nei fatti, una sequela lunga tre ore di sbronze e sniffate elefantiache. E l’elefante c’entra eccome, visto che giganteggia nella sequenza di apertura imbrattando il campo visivo con le sue deiezioni. Metafora del marcio che da sempre alberga in pompa magna nella Fabbrica dei Sogni (e anche qui nulla di particolarmente innovativo).
Ora, quando un cineasta vuole a ogni costo cimentarsi con quel particolare canone estetico della “Dismisura” , dovrebbe essere un filo più consapevole di quanto sia rischioso e infido; di non confonderlo e identificarlo con la sfarzosità dei mezzi a sua disposizione. A farne le spese poi è lo spettatore che si ritrova a doversi districare in un guazzabuglio di storie senza né capo né coda. Perché il maggior difetto che io imputo a tale presunto kolossal è una sceneggiatura sbrodolona, che s’imbroda, incarta e aggroviglia da sola. A cui un montaggio asfittico e dozzinale non rende alcun servizio, lasciando i malcapitati interpreti agli sbandi di una trama che si gonfia, dilata e implode miseramente come una mongolfiera che arranca per una irreversibile crisi di asma.
Un paio di scene ben piazzate – a onore del vero e per senso di giustizia occorre dirlo – non sono sufficienti a supportare (e ancor meno giustificare) la quantità di tempo e di risorse tecniche e umane impiegate per ribadire che, oggi come allora, La Mecca del Cinema è anche un mostruoso marchingegno che ti prende, si gingilla e diletta con te ricoprendoti di coccole finché rendi, fino a divorarti e farti scomparire nelle sue viscere, ed espellerti dal pertugio adibito a fuoriuscita delle proprie feci.
Quanti film hanno già affrontato l’argomento? Quanti documentari sono stati già realizzati? Quanti saggi, mémoir, biografie, testimonianze sono già apparsi?
Eppure, nostro novello “Unto” della Celluloide è convinto di svelarci lui come vanno le cose. Per di più affastellando un rosario di citazioni, altrimenti dette scopiazzature. Presupponendo che tout le monde sappia chi sia stata Clara Bow, diva del muto celebre anche (e soprattutto) per il suo spirito trasgressivo, nonché per le sue dipendenze da droghe e alcool che le stroncarono vita e carriera anzitempo. In caso contrario, il personaggio di Margot Robbie si assicurerebbe ottime chances per risultare agli occhi dell’ ignaro spettatore, un’antesignana dei Rave party.
Stesso discorso, solo appena in meglio, per il Jack Corman di Brad Pitt dietro chi si cela la figura di John Gilbert, altra star del periodo ed ex marito della divina Garbo. Anche qui, se si è all’oscuro totale dei fatti, si fa fatica a comprenderne il senso di annientamento che lo pervade. Ma del terzetto dei protagonisti, quello che ne esce di più con le ossa rotte, è il Many Torres di Diego Calva, personaggio di puro servizio e di raccordo fra le tante figure che popolano e passeggiano e s’incrociano lungo i fotogrammi chilometrici di una pellicola che al pari della gatta finisce per lasciarci ben più che lo zampino.
E per concludere, aggiungo solo che qualcuno prima o poi dovrebbe dirlo a Chazelle quanto sia eticamente – e moralmente – scorretto sputare nel piatto in cui si mangia. Magari utilizzando un altro verbo per render più chiaro il concetto.
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