Donne della nebbia. Laura Acero e la storia di una periferia colombiana
Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Donne della nebbia” di Laura Acero, traduzione di Serena Bianchi, Ventanas, 2024
È stato intenso immergersi in questo breve romanzo che parla di una periferia lontana, in cui ancora sono visibili quei mutamenti che l’Occidente ha già sperimentato più di mezzo secolo fa, come la migrazione massiccia dalle campagne alle città.
Ma nel libro della colombiana Laura Acero non c’è solo questo: penetriamo in un ambiente femminile in cui, ancora oggi, è in corso una silente lotta per l’emancipazione, e attraversiamo pure una storia personale che ci fa riflettere sul concetto di “libertà”.
In 138 pagine, Acero ci fa conoscere la vita delle donne di Sumapaz, nel mezzo del páramo più grande del mondo. Si tratta di una zona impervia, situata tra le Ande, in cui arriva la “rivoluzione verde”, ossia l’agricoltura intensiva; dove ancora si conservano le tradizioni e dove si cerca di vivere, per quanto possibile, secondo il ritmo della natura.
Ma il páramo è anche un luogo che accoglie solitudini ricercate, coltivate e imposte. Qui arriva una professoressa che tiene un corso di scrittura creativa. Per venire in questa landa, lei ha lasciato a Bogotà il figlio appena nato nelle mani del marito. E proprio qui c’è un’altra come lei, Adriana, che ha fatto la sua stessa scelta; tale coincidenza muove i fili del romanzo.
“Donne della nebbia” è un’opera che ci racconta del potere della scrittura, della necessità di lasciare testimonianza di un passaggio, di un dolore, di una gioia. Se questo gesto di imprimere le parole su un foglio non fosse mai avvenuto, cosa rimarrebbe di noi? Basta solo l’esperienza diretta, la memoria, l’oralità per dare all’umanità uno sguardo sul proprio passato? E soprattutto, quanto il passato è capace di condizionare il futuro?
Non sono le uniche domande che Acero suggerirà ai lettori. Le donne che la professoressa incontra sanno leggere giusto il necessario, ma non hanno difficoltà a raccontare le loro vicissitudini, a riconoscere l’origine dei loro turbamenti, a condannare la violenza della Guerra civile e a fare i conti con la storia. Ed è proprio la Storia, quella collettiva che forgia nazioni e popoli, che qui appare come qualcosa di fronte cui l’individuo soccombe e perde sé stesso; una sorta di piovra che tutto acciuffa tra i suoi tentacoli.
E poi, come un’improvvisa tempesta, l’autrice apre il discorso sulla maternità e sul ruolo della madre. E che sia finalmente una donna a parlare di questo argomento, ci spalanca l’animo su qualcosa di intimo, che va al di là delle narrazioni pseudo-accademiche, imponendoci un confronto con quelle che sono le nostre idee.
Insomma, una scrittrice sudamericana che ci racconta in maniera originale della periferia rurale della Colombia. Il tutto supportato da uno stile che unisce reale e onirico, che non fa sconti e che sa raccontare con chiarezza istinti e desideri.