Divagazioni sulla verità

Articolo di Stefano Cazzato

Che cosa ha detto veramente… E via con una serie di nomi di filosofi e scienziati, scrittori e grandi uomini: Epicuro, Buddha, Spinoza, Rousseau, Hegel, Joyce, Sartre, Dewey e tanti altri.

Si chiamava così una lodevole collana di libri che, negli anni Sessanta e Settanta, ebbe un discreto successo. E da cui si potevano imparare molte cose.

Con  uno dei quei libri (Che cosa ha veramente detto Kierkegaard), che mi aspettava a due lire su una bancarella, mi trovai a tu per tu  che ero ancora ragazzo, ero ancora ragazzo, poco avvezzo all’ermeneutica e alla critica letteraria, digiuno di Gadamer e di Ricoeur, di Derrida e di Todorov, non sospettavo l’esistenza dei maestri del sospetto, ignoravo la promiscuità tra speculazione e ideologia, le differenze tra strutturalismo hard e soft, l’esistenza del pensiero situato, delle impurità che inquinano la trasparenza del soggetto e dei suoi giudizi, e consideravo quello che c’era scritto sui libri, se non verità assoluta, sapere certo. Mi rispecchiavo, con qualche perplessità. L’Eco dell’opera aperta non mi era ancora giunta.

Poi sopraggiunsero tutte queste cose e, via Nietzsche e scritti come Verità e menzogna, finì per convincermi della celebre formula “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”.

Potete immaginare allora la sorpresa quando scoprì che i miei sospetti, per quanto acerbi e ingenui, fossero fondati: un libro è sempre interpretazione del mondo o di qualcuno che interpreta il mondo, un’interpretazione più o meno convincente, più o meno verosimile, ma pur sempre interpretazione. Tanto più un libro di filosofia che contiene riflessioni molto diverse dalle descrizioni esatte della scienza, portatrici del cosiddetto “primo vero”. Quello dei filosofi – ho capito dopo – è il dominio della valutazione ragionata, del punto di vista argomentato ma non conclusivo. Esistono tanti Platone, tanti Marx, l’essere si dice in molti modi.

Ecco perché quell’espressione “Che cosa ha veramente detto”, con quel veramente così perentorio e apodittico, oggi mi sembra fuorviante. Dà l’idea della verità contenuta in un guscio, che va estrapolata, presa, ma che è già lì da sempre, da tempo immemorabile, quindi, sostanzialmente, sostanza fuori dal tempo.

Non nego che sia rintracciabile un nucleo inaggirabile di concetti e di temi propri di un autore, identitari per così dire, ma penso che quello che conta è il modo in cui l’autore li declina, la sua personalità, il suo temperamento, il suo timbro personale. La filosofia è come una ricetta: non si capisce bene se esista un originale, depositato da qualche parte, cui si possa tornare a ritroso, forse si tratta semplicemente di prendere una decina di argomenti-ingredienti e deciderne le dosi, la successione, il trattamento, il grado e il tipo di cottura e altre cose simili.

Alla fine, di fronte alla qualità del risultato, non ci chiediamo se risponde a un modello, se esiste qualcosa come la quintessenza del tiramisù e della parmigiana, la parmigianità, per capirci.

Mia madre faceva una parmigiana buonissima, ma senza carne, quindi la alleggeriva, la smaterializzava, rendeva più leggero il suo essere, allontanandola però dall’ideale, che è molto pesante. Era sempre parmigiana? Può darsi che fosse una variante o una variante della variante! Ma qual è la vera ricetta? Chi l’ha detta, chi l’ha scritta? Chi ne ha i diritti? Dove sta scritto? Forse esiste lassù, lontano, ma come ci si arriva?

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