Il lampadario. Clarice Lispector e “l’iniziazione alla vita”

Recensione di Martino Ciano già pubblicata per L’Ottavo

Un ricordo chiama l’altro portando dietro un carico di emozioni sempre più pesante. Il passato invade il presente cosicché ciò che è stato determina ciò che è, creando in questo modo un labirinto dal quale difficilmente si riesce ad uscire. Quella della Lispector è una scrittura densa, a tratti disturbante, in cui tutto parla e ogni cosa prende vita. Il libro comincia dall’infanzia di Virginia, protagonista del romanzo. Lei è una bambina attenta, curiosa, disturbata da pensieri strani, a tratti raccapriccianti. Intanto, intorno a lei ogni cosa si sfascia; prima di tutto Granja Quieta, la tenuta in cui abita e che si affaccia su un fiume che la educa all’incanto e alla tragedia.

Al suo fianco il fratello Daniel. Ragazzo possessivo, amante delle tenebre, persuaso dalla necessità dell’espiazione. Inculca anche nella sorella questo bisogno di ripulirsi da qualcosa che non ha forma, senso, origine, ma di cui si avverte la presenza. Attraversare il male vuol dire conoscerlo; prendere coscienza del buio significa già avviare con esso un discorso chiarificatore. Non è un caso che Virginia trovi un porto sicuro, inquietante e rasserenatore allo stesso tempo, in un lampadario che simboleggia il passato, proprio perché è l’unico oggetto che resta rispetto ai tanti mobili che pian piano spariscono.

Ecco il moto del tempo. La polvere si posa sulle cose, ma le cose sono anche capaci di piangere. Daniel e Virginia sono isolati dal mondo, creano il loro universo e lo attraversano secondo i loro riti. Entrambi fondano la Società delle ombre, una sorta di Ente che custodisce i loro segreti, anche quelli immaginati o ispirati dalla fantasia. Fatto sta che ne sono gli unici membri. Virginia soprattutto dovrà sottostare alle regole del fratello, il quale chiede a lei di meditare al buio, in una stanza.

Così passa l’infanzia di Virginia, che poi lascerà la tenuta per andare a studiare in città, ma qui scopre qualcosa di tragico: la vita reale. Una nuova società, il suo corpo che cambia, la tensione emotiva, l’amore, e poche risorse con cui dovrà sopravvivere. E proprio l’amore la trascina in un abisso, in qualcosa di fatale attraverso cui dissipare quel buio con cui aveva fatto i conti da bambina. Vicente è un uomo sposato, con lui intrattiene una relazione, ma per Virginia è l’innominabile istinto incestuoso che aveva avuto verso il fratello. Nel mezzo compaiono altri uomini e anche loro richiamano sensazioni con cui lei è venuta a contatto lì, nella tenuta, negli anni dell’infanzia e che ancora attendono di essere conosciuti.

Come detto, in questo libro tutto è visione che si fa realtà, che invade la materia, che destabilizza l’ordine. Anche la normalità viene indagata in ogni aspetto in maniera asfissiante. Virginia è solo pensiero, abbandona il suo corpo perché disprezza il limite della carne e delle ossa. Si tuffa nell’ignoto, in quella oscurità che tanto ha amato da bambina. Forse lei non è mai uscita da quella stanza buia nella quale doveva meditare; forse continua a infliggersi quel castigo che tanto amava.

Non è un libro semplice questo della Lispector, perché chiede al lettore di immergersi totalmente tra le pagine. Intriso di visionaria decadenza, ma anche di un realismo perturbante in cui odori, suoni, gusti e sensazioni tattili diventano persistenti, Il lampadario è un romanzo che va soprattutto attraversato dalla prima all’ultima pagina.

 

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