Guy Debord e la spettacolarità imposta
Articolo e foto di Martino Ciano, già pubblicato per Zona di Disagio
Mercificazione, potere del marketing, spettacolarizzazione di ogni attività umana, vuoti esistenziali. Sono i sintomi della società odierna, simboli di una realtà illusoria che accettiamo nonostante si disintegri davanti ai nostri occhi. Può sembrare un film di fantascienza, forse il peggior cortometraggio mai visto prima, ma è ciò che viviamo, ciò che neghiamo consapevolmente. Il nostro tempo interiore non viaggia però sugli stessi binari di quello esterno. Le lancette della nostra coscienza sono capaci di girare in senso orario ed antiorario. Questa differenza sostanziale è ciò che crea in noi i vuoti esistenziali, ossia: l’attaccamento della coscienza e dei nostri imperativi categorici ad archetipi che riconosciamo come rarefatti ed aleatori.
Ebbene, nel 1967 Guy Debord, ispiratore del movimento d’avanguardia Situazionista, poi diventato Lettrista, scrisse La società dello spettacolo, con cui propose una nuova lettura dello scontro tra comunismo e capitalismo. Entrambi i sistemi erano accomunati da un elemento: la spettacolarità, che nei regimi totalitari, come quello comunista, era concentrata, perché controllata da un regime; mentre nelle democrazie diventava diffusa, ossia supervisionata dal potere della merce. Feticcio che diventava immagine consistente, emancipata e separata dal contesto.
Per Debord, l’immagine diventa il medium del mercato, del linguaggio, dell’intera società. Verso di essa l’uomo prova un’attrazione particolare, pur riconoscendo la sua illusorietà. Ma allora perché è capace di convincerci? Per Debord l’inganno sta in una frase: garantire a tutti migliori condizioni di vita. Il capitalismo degli albori, infatti, divise il mondo in due classi. Da una parte quella capitalista, la cui sola preoccupazione era l’accumulazione; dall’altra quella proletaria, i cui membri ricevevano quel poco che gli bastava per la sopravvivenza e per produrre prole e quindi forza lavoro. Con il passare del tempo, le crisi create dalla sovrapproduzione hanno trasformato il proletario in consumatore. Un soggetto ibrido, perché veste sempre i panni del proletario ma riceve un salario maggiore, che non serve a garantire la sopravvivenza e la produzione della prole, quindi della sua classe, ma garantisce vita eterna al sistema consumistico. Anche l’operaio prende quindi parte ad un processo ansioso di accumulazione, è manodopera e forza motrice del nuovo organismo.
Si sente libero, realizzato. È contemporaneamente rivoluzione e controrivoluzione. In questo mondo che è ormai immagine e spettacolo, il tempo è immobile, fisso ed alienato, perché i soggetti lo vivono passivamente, sottomessi al ciclo produttivo.
Ciò che affascina di più di Debord è che scrive questo libro quando le forme di marketing e i mezzi di comunicazione non erano diffusi come oggi. La società dello spettacolo, quindi, anticipò i nostri tempi e nessuno è ancora riuscito a smentire le tesi contenute in questo libro.
Ma come detto, il pensatore francese fa notare che la spettacolarità è presente anche nei regimi dittatoriali e il suo obiettivo è sempre quello di creare un mondo consapevolmente illusorio.
Ci sono due romanzi, pubblicati prima dell’opera di Debord, che ci dicono qualcosa al riguardo: 1984 di George Orwell e Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Dell’opera di Orwell possiamo citare la pratica dei Due minuti di odio, momento in cui gli astanti potevano scaricare le proprie frustrazioni e la loro ira sui nemici del regime, pur non sapendo chi essi fossero.
Dall’opera di Bradbury, invece, possiamo citare l’inizio del libro. “Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, annerite, diverse”. Così inizia la storia di Montag, un pompiere che invece di spegnere gli incendi deve appiccarli. Con il suo lanciafiamme brucia i libri, simboli della vecchia cultura. Lo fa in modo spettacolare, senza porsi domande. Sa di vivere in un mondo di illusioni, in cui gli ideali portanti sono l’accumulazione e le migliori condizioni di vita.
Detto ciò, rivolgiamo una domanda a noi stessi.
Di quale spettacolo facciamo parte?