Trofeo. Emanuela Cocco e le parole che costruiscono la realtà
Recensione di Alessio Barettini. In copertina: “Trofeo” di Emanuela Cocco, Zona42, 2023
Emanuela Cocco iscrive il suo Trofeo con un esergo che apre immediatamente su un mondo di interrogativi. La citazione è da What is the Word, poesia di Samuel Beckett quanto mai enigmatica e autoriflessiva intorno ai temi del ruolo della parola, del significato di essa in senso assoluto, della ricerca di uno spazio metafisico e iper-moderno dove il senso e la sua assenza si contendono gli eventi e, appunto, le parole stesse.
Siamo in uno spazio ambiguo, con la scrittura di Beckett, che in What is the Word arriva ad assomigliare pericolosamente a giochi di parole come quello di Dustin Hoffman in Rain Man, Chi è in prima base, quasi un anti-scherzo irritante ed elementare che assume una dimensione di senso essenziale in bocca ad un uomo autistico.
E allora ecco gli spazi liminali della mente, o più in generale l’afasia, si mostrano subito in Trofeo di Emanuela Cocco, pubblicato per Zona42, interrogandoci in modo schizofrenico e centrifugo lungo linee che, c’è da esserne certi, cercheranno di abbattere qualche certezza logica da lettore, qualche abitudine mentale atrofizzata, qualche schema superfluo.
Non dobbiamo aspettare molto per avere conferma di questo evidente sospetto, perché la prima pagina di Trofeo ci dà, o ci toglie, alcune indicazioni. Essa contiene alcune particolarità, perché è scritta in seconda persona singolare, perché la voce narrante è un abito e perché racconta un omicidio. Il tutto in sole 46 parole. Non solo, perché si vede già quel senso di spaesamento che le parole possono produrre, dato che l’autrice gioca con i termini “trama” e “stoffa” in modo da creare una linea fra l’abito che parla e la vittima, la donna che indossava quell’abito che è diventato l’arma del delitto in mano al suo assassino. Sembra quasi che si instauri una grottesca lotta per la sopravvivenza nella quale l’abito sopravvive a chi lo porta.
Il primo capitolo si intitola Fredda. Qui la voce narrante non cambia, è la voce dell’abito. L’autrice ci porta altrove, in un negozio. È qui che la donna entra una prima volta in cerca di un vestito da indossare a un primo appuntamento e lo prova. Ma contrariamente a quel che potrebbe apparire non acquista quell’abito, ritenendolo così: freddo.
L’abito, scopriamo, ha una sua anima, dei sentimenti, sente di potersi riconoscere in quello che le dicono, rimarca che come tutte (tutti i vestiti e tutte le donne) ha l’abitudine di credere a ciò che le viene detto, lamenta la sofferenza di essersi sentita chiamare così. Ma poi la donna torna sui suoi passi e decide di far suo quell’indumento. E poi ancora la voce torna a raccontare della morte della donna, creando una corrispondenza della parola fredda, da giudizio estetico a dato reale per descrivere la condizione del corpo assassinato.
Inoltre, una seconda corrispondenza compare poco dopo, nel nome proprio che identificava il manichino che mostrava l’abito, il nome che l’abito aveva dato a quel busto senza testa, e il nome della donna assassinata diventata ugualmente senza vita. La chiusura del capitolo ci riporta in uno spazio mentale angusto e inquietante, oltreché attuale e sintomatico: l’abito racconta che il suo nuovo proprietario è ora l’assassino della donna: lo ha portato a casa e lo ha usato come feticcio della donna ammazzata.
Si è appena spogliato, si strofina contro il mio corpo ferito, non sono sicura ma penso che stiamo facendo l’amore. Credo gli piacciano le cose fredde, a lui vado bene così come sono. E credo di amarlo.
Nei successivi capitoli l’abito ci racconta la sua nuova vita nella casa dell’assassino. È diventato un trofeo dimenticato, e insieme ad altri trofei, lungo un percorso di parole imparate per la prima volta, ci racconta quello che vede. La casa del “mostro” ricorda quei serial killer maniacali, con tanto di immaginario oscuro e ridondante, inquietante e ossessivo, e ci viene mostrata attraverso le sensazioni provate di riflesso dall’abito stesso e dagli altri feticci, gli altri trofei ormai dimenticati ma che hanno acquisito una forma di coscienza, trasmessa loro in un mélange indefinito che riporta e unisce elementi della vita delle vittime e di quella del loro assassino.
La costruzione narrativa postmoderna di Trofeo punta dunque alla scoperta di un linguaggio, anzi meglio a una sua genesi, che sia contemporaneamente vita per i trofei presenti e testimoni della quotidianità dell’omicida, nonché tentativo di decifrazione della sua realtà, che per definizione sfugge a qualunque tipo di senso condiviso.
Trofeo è dunque parola-concetto, per dirla con Deleuze, lemma archetipico di un mondo privo di significato, narrazione che mira a semantizzare lo spazio buio che è la mente dell’assassino seriale. Così esse (le parole) non potranno mai essere assolute, ma in virtù di questo scarto fra mondi separati proveranno a costruire un mondo attraverso ipotesi, desideri, lacerti di attenzione che sono dello sguardo stesso quando questo si trova svuotato di senso, impossibilitato a capire ma desideroso di appigliarsi a riferimenti concreti che accorcino la distanza fra il mondo delle vittime dell’uomo e il dopo, nell’esigenza di dare a ciò che resta la dignità di una memoria.
Il trofeo è oggetto della centralità del momento, della gloria della memoria ed è simbolo di un traguardo. Ma con il tempo l’abito si rende conto che il vero trofeo è l’intera vita dell’uomo, di essere parte del suo eterno spettacolo sempre mancante al mondo.
È l’uomo che spia e quello che viene guardato. La sua immagine doppia è appiattita sullo sfondo di un irrazionale piano sequenza. È dentro l’immagine, ma è anche fuori dalla storia, per sempre fuori dalla storia. (…)
Nella brutale spietatezza della vita, la realtà lo inscrive. E il mondo esiste, ne è certo, esistono questa stanza, questo corpo, e le cose. E il mondo esiste, ma non per lui. A questo punto, agli oggetti non resterà che una cosa per affermare la propria esistenza: diventare puramente parola, puramente trofei, specchi di memoria e quindi occasione di portare la storia a un punto diverso, dentro una visione possibile, spostata dal proprio meccanismo ricorsivo e dunque, definitivamente, parte della storia, riconoscibile in quanto tale.
Ma la donna ha preso in mano il giocattolo e il giocattolo è diventato il bambino. È solo questo momento, è solo questo abbraccio, che lo fa esistere nel mondo. Questo è il lavoro del trofeo.
Emanuela Cocco costruisce un romanzo breve (o racconto lungo) di non facile accesso. Il mondo esplorato, per definizione inesplorabile, viene avvicinato da un punto di vista ugualmente muto, e attraverso questo meccanismo lavora sul tentativo di accorciamento delle distanze, di ri-costruzione del dato reale come elemento imprescindibile per spiegare ciò che della realtà (e della storia) non si può spiegare.
L’operazione riesce, sostenuta dal desiderio della voce degli oggetti. Così Trofeo, più che concludersi come libro su una specifica psiche, si colloca su un piano più generale di osservazione del desiderio nelle sue forme più estreme, quella del male e quella della pura necessità. Gli oggetti garantiscono un punto di vista neutrale, asettico, supportato da frasi a volte spezzate, altre espresse in forma congetturale, che insieme danno vita a un movimento degli oggetti stessi verso l’identificazione con l’umano, permettendo alla scrittura di rispettare il processo di conoscenza che le è proprio.