Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori

Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori

Recensione di Alessio Barettini. In copertina: “Chiudo la porta e urlo” di Alessio Barettini, Mondadori, 2024

Chiudo la porta e urlo, Paolo Nori, Mondadori, è un romanzo autofinzionale che oscilla fra la vita privata, le memorie dell’autore e la vita di Raffaello Baldini, poeta di Sant’Arcangelo di Romagna, figura importante per la cura della lingua dialettale e come intellettuale romagnolo.

La casa dove Nori costruisce Chiudo la porta e urlo sembra essere senza tende, perché non soltanto l’autore non si cura in alcun modo di dissimulare il processo autofinzionale dentro una qualunque strategia letteraria che possa risultare di infingimento, che possa far sospettare almeno momentaneamente i lettori, ma non c’è proprio dubbio, leggendo e incontrando Nori alle prese con la sua famiglia, che le cose stiano così.

Togliatti e la Battaglia, questi i soprannomi rispettivamente di moglie e figlia dell’autore, anche nella realtà, cosa che sola basterebbe a fare della letteratura di Paolo Nori una via di mezzo perfetta fra serietà e rigore da una parte, e ironia spiazzante dall’altra. E se appunto così non fosse, basterebbe la voce narrante a completarne l’opera. Voce presentissima, peraltro, e frequente come se essa pretendesse più spazio, come se volesse toglierlo all’autore stesso, con un buffo risultato di saltelli continui da una parte all’altra delle cose:

Adesso, non lo dico per giustificarmi, ma è stato un periodo che avevo smesso di andare a scuola perché, intorno ai diciassette anni, avevo scoperto le droghe leggere e avevo trovato la mia vocazione. Io, da grande, dico, volevo essere un drogato. È durata due anni, poi mi sono accorto che non era una carriera adatta a me e ho cambiato strada. (p.6)

Uso frequente di virgole, di anacoluti, di riflessioni a voce alta che ricordano lo stile di Meneghello, anche se l’autore parmense li usa con intenzioni diverse, simili all’idea cinematografica di abbattere la quarta parete, simili all’idea che leggere Paolo Nori sia come bere una birra al pub con lui che ti sta raccontando i fatti suoi. Peraltro la narrazione stessa procede come quando si parla ad alta voce, si va avanti nel discorso, si lascia qualcosa indietro, lo si riprende e poi si va ancora avanti, e così, ancora, Nori conduce il gioco.

L’autore ci racconta di diversi momenti della sua vita, scrive un patchwork che contiene fra le altre cose l’inizio della sua scrittura, la sua vicinanza con Dostoevskij, con Achmatova, con Chlebnikov, e con Baldini, che Nori esplora citando spesso stralci di suoi lavori o anche intere poesie e che dichiara essere stato il «più grande poeta italiano del Novecento.»

In Chiudo la porta e urlo, Nori racconta molto di sé, si prende continuamente in giro, e si ferma spesso a ricordare due momenti chiave della sua vita in cui ha rischiato seriamente di morire, episodi peraltro da lui stesso raccontati in un podcast dal titolo Due volte che sono morto. Ma con una forma atavica di riservatezza, ogni volta che Nori ha la sensazione di rubare troppo la scena, ecco che torna a parlare di Baldini, strano l’incontro letterario fra i suoi russi e questo poeta romagnolo così ricco di ironia, signorile e spietato, popolare e nobile, questo poeta in fondo misterioso che Nori cerca di sbrogliare:

Le poesie di Baldini, mi sembra succeda il contrario. Io non son mai stato nel viale della Fossa, ma mi sembra di vederlo, il viale della Fossa, e l’ultima panchina, e gli uccelli per aria, e loro che si guardano in silenzio e lui che, piano piano, sull’erba, torna indietro. (p.36)

Infatti la scrittura di Nori è sempre sospesa, sempre incredula, ha il coraggio di stupirsi, e di scrivere di questo coraggio, a costo di apparire ridicolo, arrogante, eccessivo o chissà che altro. La via della verità passa attraverso lo stupore, sembra urlarci, e se i nostri occhi sono troppo stanchi o troppo distratti o troppo poco pronti, bisogna sapere che bisogna andarselo a cercare per forza, lo stupore, bisogna volerlo.

Facendo un paragone partendo dall’idea di Mandel’štam che definisce la Commedia di Dante una forma cristallografica, si potrebbe vedere Chiudo la porta e urlo come un oggetto domestico umile, impolverato, colorato, ma ben disposto su un ripiano ben visibile in una parte di una camera illuminato dalla luce solare che arriva dalla finestra.

In questo spirito popolare, ciarliero, divertito ma non privo di riferimenti culturali frequenti, prosegue la scrittura, oscillando fra vita di Nori, privata e letteraria, vita di Baldini, riferimenti alla letteratura russa e ad altri elementi non lontani dal mondo di Baldini: per esempio uno spazio non secondario ce l’hanno lo scrittore Daniele Benati, amico di Baldini e dello stesso Nori, Antonio Pennacchi, Nino Pedretti.

Sembrerebbe sciatteria, questa scrittura che ride di sé stessa come fanno gli sciocchi che non sanno di esserlo (i coglioni presenti sin dall’inizio del libro), ma appare presto chiaro come l’idea di scrittura per Nori sia una ricerca verso la nobiltà del gesto stesso della scrittura. Questa voce dimessa, quotidiana, Nori è bene attento, a tratti, a farcela vedere da diverse angolature, ci lascia entrare nel suo laboratorio artigianale per mostrarci come la scrittura si crei da sé. Ci mostra la sua idea di traduzione, essendo lui stesso traduttore dal russo, ci mostra le implicazioni di certe scelte letterarie, non esita a condannare l’eccesso di purezza, preferendo sempre questa semplice trasposizione ragionata di una scrittura che assomiglia all’oralità.

Ci son dei momenti, questo romanzo, che resto dei quindici giorni senza scrivere niente. Son sempre lì, a quella cosa che diceva Šklovskij: sono così occupato dalla vita che mi dimentico di viverla. (p.87)

E poi, c’è la figura di suo padre, chiamato in causa per il suo lavoro di costruttore di case, per paragonare la durata delle case alla durata dei suoi libri. Fino a quando verranno letti? Si chiede, consapevole che se passerà un secolo quelle case saranno ancora su, ancora abitabili. E i suoi libri? In altre parole questo libro si estende in uno spazio orizzontale: la Russia e la Romagna sono due terre estese e ugualmente infinite, ma a ben guardare, avviene lo stesso, di proposito, anche in verticale: la nascita del suo interesse letterario, i russi e i poeti romagnoli, appunto, il padre, l’idea stessa di scrittura, il tutto sembra possibile che si incastri anche se appare distante, anche se non c’è paragone apparente che regga, anche se in realtà il paragone è ovunque, resiste a dispetto di ogni apparenza.

L’ultima parte del libro è quasi totalmente rivolta su Baldini, di cui l’autore riporta diverse poesie come anche diverse testimonianze di persone che lo hanno conosciuto, e ne esplora parti della vita, su tutte il ruolo fondamentale della moglie Lina.

Se dovessi scrivere una biografia di Baldini, e fossi capace di farlo, credo che parlerei molto di sua moglie Lina che, chissà se è vero, ma, come forse ho già detto, io mi immagino sia quella di “In due”, quella che, quando vai al cinema, «poi Fine, si accendono le luci, è come svegliarsi, ti alzi, e basta un niente, che le tieni il cappotto, che se l’infila, che la stringi, non molto, solo sentirla.» (p.143)

Il romanzo si chiude con lo svelamento delle intenzioni: Nori voleva sentire e farci sentire una familiarità (possibile) con Baldini, e per lui usa la parola “originale”, nella sua accezione più etimologicamente precisa a dispetto del suo abuso linguistico e letterario.

Post correlati