Ascoltami quando sto zitto. Zornitsa Hristova e il contenuto delle parole

Ascoltami quando sto zitto. Zornitsa Hristova e il contenuto delle parole

Recensione di Filomena Gagliardi. In copertina: “Ascoltami quando sto zitto” di Zornitsa Hristova, illustrazioni di Kiril Zlatkov. Il libro è stato tradotto da Neva Micheva e pubblicato da Orecchio Acerbo editore nel 2024

Quando si viene al mondo, gli altri hanno la necessità di insegnarci la parola. Anche nel Protagora di Platone si racconta questo: solo quando agli uomini venne fatto il dono della virtù politica, che presuppone quello della parola, essi ebbero tutti gli strumenti per vivere in società.

Analogamente qualcosa di simile accade all’Orso di “Ascoltami quando sto zitto”: si tratta di un albo bellissimo, scritto nel 2015 da Zornitsa Hristova, illustrato da Kiril Zlatkov e pubblicato nel 2015 dalla casa editrice bulgara Tochita Publishers; Neva Micheva lo ha tradotto in italiano per Orecchio Acerbo Editore nel 2024.

Ebbene il nostro amico orso trova innanzitutto un’utilità pratica delle parole che i grandi gli insegnarono affinché avesse “un posto dove mettere le cose”. La pagina contenente la frase ora citata è disegnata con tanti oggetti, contenenti le tante parole che sembrano emergere dalla testa dell’animale, ripreso nel suo volto.

Le parole però sono anche belle. Lo stesso Gorgia, del resto, nell’Encomio di Elena, afferma che i discorsi sono belli, seducono, attraggono. Analogamente Orsetto sentenzia: “Le parole mi piacciono”.

Eppure subito dopo quest’ultimo, che è molto intelligente, comprende i limiti delle parole, e lo fa esattamente come farebbe un filosofo, ovvero esaminando carenze ed eccessi delle stesse. Da un lato, dunque, “dentro” le parole “non ci sta proprio tutto”: ad esempio, in esse non c’è la musica, sostiene il nostro eroe, e “molte cose ancora”, che troverete leggendo l’albo.

Che le parole rigettino la musica, del resto, ricorda molto l’interpretazione nietzschiana della tragedia greca, nata dalla musica, dal dionisiaco, dall’informe e morta con le parole, l’apollineo, la forma. Il disegnatore mima le “molte cose ancora” con un cielo fatto di nubi da cui emerge la testa sognante del nostro amico orso.

Dall’altro lato, invece, nelle parole il nostro protagonista teme di “nasconderci qualcosa di importante”: esse quindi sarebbero dei contenitori capienti a tal punto da accogliere tutto e di più senza selezione, senza filtro, in modo confuso e mescolato. Le parole, quindi, possono far perdere il senso vero delle cose, possono confondere, esattamente come quelle di Paride confusero Elena, come impariamo sempre dal predetto Encomio.

Ultima spes, per recuperare il significato delle parole perse, allora è seguire l’appello del peloso-sapiente che ci comunica il suo oracolo soffiando in una sorta di strumento a fiato: “Ascoltami quando sto zitto/e magari lo sentirai”.

I disegni, in bianco e nero, non prestano il fianco all’esteriorità, ma costringono all’austerità dell’ascolto, uno stile di apprendimento interiore, intimo, come ci ha già insegnato Agostino: Noli foras ire, redi in te ispum, in interiore homine habitat veritas.

E solo ascoltando il nostro silenzio, forse, possiamo ascoltare quello degli altri e capirne il perché, abbandonando la scenografia narcisistica delle parole, la finta iperbole dei like virtuali, il misero spiare la vita degli altri da una tastiera, senza il desiderio di incontrarli veramente, abbracciarli, amarli, ascoltarli, chiedere loro “Come stai”, come di recente, la famosa Chiara Gamberale ha saputo fare nel suo ultimo romanzo Dimmi di te”… ma questa è un’altra storia.

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