Apoteosi di un allucinato. Marco Vetrugno e le rivelazioni di un irregolare

Apoteosi di un allucinato. Marco Vetrugno e le rivelazioni di un irregolare

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “Apoteosi di un allucinato” di Marco Vetrugno, Qed Edizioni, 2024

È una scrittura sospinta dall’esperienza e dalla rielaborazione del proprio sentire; è la voce della solitudine che sgorga da chi vive ai margini, anche volutamente, non per spirito di contraddizione o per affiliarsi a un blando elitarismo, ma per assaporare senza alcun filtro la condizione umana.

Marco Vetrugno ci mostra un personaggio che incarna i panni dell’aspirante scrittore, che percorre la dura strada della depressione e della dipendenza dalle droghe, che ama e crede nell’arte, che non riesce a fare a meno delle tentazioni e delle cattive compagnie.

Ecco Boris, ossia un uomo “vero” perché è la somma delle sue contraddizioni. Sa bene che il suo problema è intimo, nel suo Panopticon, in quella prigione circolare in cui tutti sono vittime e carnefici, sorveglianti e detenuti. Nel mezzo di questa ambivalenza, il terzo incomodo è l’impossibilità di risolvere il conflitto. Ma cosa crea tutto ciò: l’arte, linguaggio universale a cui il protagonista si aggrappa.

È una scrittura che né si accusa né si assolve: le vittime e gli aguzzini restano tali; tutti conoscono bene la loro natura e da essa traggono piacere e dolore. Autolesionismo? No, semplicemente ciò che l’uomo è.

Vetrugno non si censura, mostra i suoi personaggi “con e senza maschere”. In una Lecce nella quale la malavita detta legge, in cui la droga scorre a fiumi, in cui ognuno cerca una via di salvezza, Boris è un “uomo che conosce la morte”, ma anche un essere pieno di “speranza”. Lo studio e la scrittura, l’arte in ogni sua forma, sono i luoghi in cui “il suo cuore riposa”.

La sua apoteosi non è solo il compimento di un’assunzione in carne e ossa nel cielo della letteratura e della poesia, ma anche un’epifania degli inferi mondani e personali originata dal suo “essere-di-carne”. Il linguaggio che scava e rivela, che stuzzica di continuo l’abisso e il perturbamento, è il punto di forza di questo romanzo.

Boris è un decadentista, perché vede negli artisti del passato i suoi amici; legge nelle loro opere messaggi eterni, sempre validi, che il tempo mai cancellerà. Ma è la consapevolezza di non “essere parte della sua epoca” ma di “essere solo un testimone delle macerie” che lo rende pure un romantico. Boris non può che soccombere abbandonandosi alle emozioni, anche perché, per lui, il naufragio è necessario.

“Apologia di un allucinato” è un’opera schietta, consigliata a coloro che cercano la marginalità e una visione autentica, nonché la forza di una prosa che non può, per sua natura, elogiare un ottimismo e un vitalismo che sono frutti di un’umanità dedita alla truffa e che ama ingannarsi.

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