Adolescence: la mia, la serie TV

“Adolescence: la mia, la serie TV” è un articolo di Daniela Grandinetti. In copertina un’immagine rielaborata dall’autrice
Sarò stata un’adolescente strana, ma quando avevo più o meno quindici anni per un certo periodo ho avuto una fissa: dovevo star male. Ero una ragazzina solare, piena di interessi, di cose da fare (se non le avevo le inventavo), di relazioni, ma la mia zona d’ombra era spessa, a volte oscura, facevo cose che mi portavano a star male dentro e pensavo nientepopodimeno che al suicidio, nessun motivo, mi affascinava l’idea.
Ricordo mi costringevo ad ascoltare in loop una cassetta con la colonna sonora di uno sceneggiato tv, Malombra, tratto dal romanzo di Fogazzaro (che ho scoperto su YouTube si trova ancora, ma cosa non si trova ormai) e niente, la ascoltavo e piangevo. Una volta in campeggio (era stata una conquista epica ottenere il permesso dai miei genitori andare in Sila con il gruppo scout) mi allontanai e me ne andai in tenda: e figurarsi se non avevo portato il mangiacassette a pile!! Stesa nel mio angolo, con la testa sullo zaino e quella musica, fissavo la lama di un coltello rubato in cucina.
Diciamolo, ero maledettamente teatrale, e un po’ lo sono rimasta, ho anche sposato un attore teatrale, finendo per separarmi, ma questa è un’altra storia. Lo ero a tal punto che le mie amiche mi tenevano d’occhio per quelle stranezze e quella volta non vedendomi mi sono venute a cercare. Piombarono nella tenda al grido di oddio e falla finita. Volevo essere cercata e trovata, con quella fissa della solitudine che quando prende gli adolescenti è una pacchia per l’inconscio che confonde ogni cosa.
Figuriamoci se poteva saltarmi in testa di parlare con un adulto: giammai mi avrebbe capito, i genitori (i miei poi, che avevano fatto a botte con la vita per sistemarsi dopo la guerra) neanche a pensarci. Una volta accadde anche, per dire, che una sera un ragazzino che mi infastidiva, mi seguì e si infilò fulmineo nel portone, dietro di me.
Avevo citofonato, la porta al secondo piano era aperta, mi sono ritrovata con ‘sto pazzo che mi infilava le mani ovunque, io cercavo di respingerlo, di spaventarlo “la porta è aperta, mio padre sente, ti fa a pezzi”. Però non gridai, non chiesi aiuto, avevo il controllo della situazione (diciamo così) e un solo pensiero mi girava in testa: se i miei se ne fossero accorti, addio, non sarei uscita per un pezzo. Alla fine gli sferrai un calcio e lo spinsi fuori con tutte le mie forze. Anche se i miei poi se ne accorsero che qualcosa era successo, ma minimizzai. Me l’ero sbrigata da me, non mi faceva paura.
L’adolescenza è il tempo più luminoso e terribile della vita, così è sempre stato se pure Manzoni nei I promessi sposi dice che è quell’età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l’inclinazioni, tutte l’idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto.
Non avevamo Crepet o Galimberti, avevamo però Dostoevskij, almeno io a quell’età lo leggevo: ma questo desiderio di disordine, più spesso che non si creda, non deriva forse da una celata sete di ordine e di “grazia” (uso la vostra parola)? La gioventù è pura già solo per il fatto di essere gioventù. Forse in questi impeti di follia tanto precoci è racchiusa proprio questa sete di ordine e questa ricerca di verità, e se certi giovani d’oggi vedono questa verità e questo ordine in cose tanto sciocche e ridicole che non si capisce nemmeno come loro abbiano potuto crederci, di chi è la colpa?” (L’adolescente)
Sono un’insegnante, so che l’adolescenza oggi non è la stessa di allora, né quella di altri tempi ed è per questo che la serie Adolescence in onda su Netflix a me è piaciuta, anche se all’inizio l’ho guardata con scetticismo, mi sembrava scontata. Certo mi fa sorridere la guerriglia che puntuale crea sui social le fazioni pro/contro che ne ha fatto la miniserie più vista a pochi giorni dall’uscita: disturbante, capolavoro, puro cinema, sopravvalutata, un pugno nello stomaco, imperdibile, genitori ed educatori devono guardarla (tipo una purga?). Ma su tutto: che tecnica in una serie tv! Un unico piano sequenza….. tutti esperti, all’improvviso.
Io confesso che l’ultimo (e forse unico) piano sequenza che conoscevo e conosco è quello di Brian De Palma nel film Omicidio in diretta, del 1998, dieci minuti su Nicholas Cage in un palazzetto dello sport. Senza rischio di spoiler (la trama è chiara dopo la prima mezz’ora) quello che ho apprezzato nella serie è l’asciuttezza del racconto, la bravura degli attori, il mosaico che ne viene fuori messo insieme con occhio clinico. Non c’è violenza, non c’è sangue, non c’è pruriginosa mania di mostrare il sensazionale.
Un ragazzino dolce, pallido e spaventato uccide una sua coetanea. Lo inchioda una telecamera: lo vediamo sperduto nella centrale di polizia dove tutti cercando di spiegargli con garbo quello che sta accadendo e accadrà. Siamo sorpresi e atterriti all’idea che possa averlo fatto davvero. Ovviamente ci sono quelli che subito fanno il post sulla mascolinità tossica: ma il padre di Jamie (il ragazzino protagonista) è un uomo gentile, innamorato della moglie, lavoratore.
Un uomo che si trova a dover comprendere dove ha sbagliato e combattere con la comunità nella quale ha sempre vissuto (una tranquilla cittadina inglese) che lo addita come responsabile, colui che ha cresciuto un assassino. La freddezza delle procedure, lo sguardo attonito della psicologa che deve stilare il profilo di Jamie, il suo profondo malessere di fronte al ragazzino.
La scuola: adolescenti arroganti e senza empatia, professori senza spina dorsale e senza mezzi per contrastare la violenza dei comportamenti, il linguaggio inopportuno perfino nel momento della tragedia. La sensibile fermezza dei poliziotti. Non c’è spettacolo del dolore, non c’è “mascolinità tossica” (almeno non l’ho percepita) perché si scopre che nel linguaggio delle emoticon di Instagram c’è un mondo nel quale lo stesso Jamie è accusato e perseguitato (anche dalla vittima) di essere un incel influenzato dal involuntary celibacy cioè uno che alle donne non potrà mai piacere e che le donne schivano e tengono lontano. Lui, un ragazzino brillante, che trascorre ore nella sua camera davanti a un pc.
Una delle tesi della cultura incel (merito della serie è portare all’attenzione questo fenomeno che si sta diffondendo nel mondo sotterraneo del web frequentato da adolescenti) è che l’80% delle donne sia attratta solo dal 20% degli uomini, un principio matematico sulla base del quale si afferma che il 20% delle cause provoca l’80% degli effetti. Sono quindi pochi gli uomini che attirano le donne. E un ragazzino timido e innocuo come Jamie, che sta nell’80% degli invisibili poco attraenti, con la sua pelle chiara, i suoi occhi verdi aperti già stanchi sul mondo, si trasforma in qualcosa di diverso, in modo subdolo e silenzioso: diventa assassino della sua “bulla” preferita. Tutti vittime e carnefici.
Alla fine c’è un padre impotente che si chiede cosa avrebbe potuto e dovuto fare e non trova risposta, una madre che invece sa di non aver fatto, e un’ultima scena in cui quel padre ha tra le mani un orsacchiotto, quello che sta, che è sempre stato sul cuscino di Jamie. Quello che lui credeva essere il compagno del suo bambino, mentre alle sue spalle il video del pc è buio, spento, nero. Un mostro che abita la piccola camera del figlio.
Si rimane impotenti, ignari di quella manosphere, quel sottobosco di voci che parlano più forte di genitori, educatori, adulti, che si insinuano in maniera subdola, pervicace e costante tanto da far scoppiare una violenza inaspettata. È recente il caso di un giovane universitario che si è suicidato a Perugia “aiutato” da ragazzi come lui, “istigazione al suicidio” da parte di un diciottenne mai incontrato e conosciuto sul web solo con il suo nickname, al quale aveva confidato problemi e ansie e il pensiero di uccidersi. Genitori ignari e un figlio che aveva affittato una stanza e possedeva cinque cellulari, entrato in un giro di vendita di farmaci.
Non ho la ricetta, né mi frega del piano sequenza di cui tutti parlano, non ci sono formule, e qualsiasi conclusione mi appare retorica, inutile. Nemmeno dire: noi avevamo Manzoni, Dostoevskij, anche se per fortuna li abbiamo avuti, per fortuna abbiamo elaborato il mondo e le sue insidie tra le pagine dei romanzi diventando consapevoli di insidie e meraviglie (magari ripensarci?)
Ecco: io giocavo con un coltello, pensavo di farmi male sulle note di una musica melensa sapendo che mai l’avrei fatto, sapendo che avevo occhi puntati addosso: che erano poi gli occhi dei miei coetanei.
Jamie, in Adolescence, con un coltello invece uccide.
Dovremmo fermarci. Tutti.
E al diavolo il piano sequenza.