Lacci

Lacci

Recensione di Letizia Falzone. In copertina la locandina del film “Lacci”

“La domanda muta aveva la nuova tonalità imperativa, esigeva una risposta immediata, silenziosa o a gola spiegata”. È un passaggio, uno dei tanti, di “Lacci” in cui è presente la scontro ideale fra silenzio e parola, reazione e passività; una domanda muta, una risposta necessaria ma non dovuta.

Nella distanza fra questi termini sta la storia d’amore lunga quarant’anni, tra i primi anni ‘80 e oggi, tra Vanda e Aldo, sposati, genitori di Anna e Sandro, abitanti nel quartiere Stella di Napoli, uniti anzi no divisi dai legami – dai lacci – che una famiglia impone, dalle responsabilità della vita in comune, dagli impegni degli affetti, dalle parole che bisogna dire e da quelle che bisogna tacere. Da questo mondo fugge Aldo, intellettuale conduttore radiofonico a Roma che passa buona parte del suo tempo via di casa, prima per lavoro, poi per amore, quando inizia una relazione con la collega Lidia, innamorata di lui tanto quanto lui non riesce ad amare nessuno, o meglio ancora non sente il bisogno di dimostrare e di dire il proprio amore a qualcuno, né all’amante, né tantomeno alla moglie o ai figli.

Aldo è il fulcro del film, l’elemento che scombina la famiglia, andandosene, tornando saltuariamente, scegliendo infine di rimanere, sempre perso nei propri silenzi, nelle parole di troppo che dice alla radio e nei gesti in cui si rifugia nella speranza di delegare l’affetto ad altre forme di comunicazione.

Vanda non sa come reagire. Lo butta fuori di casa, lo cerca, gli chiede di assumersi delle responsabilità nei confronti dei figli. Lui, a sua volta, esce ed entra dalle loro vite. Sembra sparire per sempre. Poi un giorno dopo qualche anno riappare quando la madre accompagna i figli che hanno deciso di passare una giornata con lui.

“Lacci” è il film di una storia che riparte ogni volta da zero. C’è il tentativo impossibile, forse per questo ancora più drammaticamente romantico, di cercare di far funzionare a tutti i costi una storia che non va.

Tradimenti e dolore, abbandoni e ritorni, segreti e lealtà, il dramma riflette sulle geometrie variabili e davvero poco cartesiane delle relazioni, sentimentali e familiari, cercando di non cedere troppo campo a meschinerie e sotterfugi, ma nemmeno di trascurarli: la vita, senza altari né altarini, e non c’è bisogno di conoscere il significato latino di “Labes”, affibbiato al gatto domestico, per sapere di che cosa sovente sia fatta, dalla vergogna alla caduta, passando per il rancore. Già, di che cosa parliamo quando parliamo di amore che non è più?

Diventa esemplare un’immagine della coppia molti anni dopo, stavolta interpretati da Silvio Orlando e Laura Morante. Sono su una spiaggia in cui sono da soli ma non c’è nessun contatto. Non stanno più insieme, ma di fatto continuano a vivere come una coppia. “Per stare insieme bisogna parlare poco, l’indispensabile” dice a un certo punto Aldo. E “Lacci” è proprio anche un film sulla mancanza di dialogo, dove però i personaggi sono sommersi dalla scrittura.

Il regista introduce il tema della trasmissione tra le generazioni delle modalità relazionali, utilizzando l’efficace e metaforica scena dell’allacciamento delle stringhe al bar. “Come ti allacci le scarpe?” Chiede la figlia al padre. In fondo ognuno i lacci se li allaccia da sé, guardando un modello. I figli, che da bambini sono innocenti e silenziose vittime tanto dell’indifferenza del padre quanto del rancore della madre nei confronti di lui e dell’amante, da adulti non appaiono per certi aspetti migliori dei genitori, dei quali ripropongono alcuni errori o meccanismi deleteri.

Ma è proprio dai figli e dal loro tentativo improvvisato di liberarsi da quella pesante eredità generando il caos nell’appartamento dei genitori, scambiato da Aldo e Vanda per un furto che può nascere una nota di speranza. È possibile distruggere i lacci per poter ricominciare a costruire legami veri.

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