Il vecchio Isacco
Racconto di Giuseppe Bella. Foto di Martino Ciano
Suo figlio gli stava dietro, puntandogli l’arma sulla schiena. Il vecchio zoppicava; era inciampato in una grossa pietra procurandosi una storta alla caviglia. Non riusciva a fermarsi. Suo figlio lo pressava. Il viottolo penetrava in una macchia; sempre più aspro, aveva ben presto perduto quel velo di bitume e un terriccio friabile ne formava adesso il fondo. Dai muri a secco traboccava un’irta ramaglia. Rifiuti erano cosparsi lungo i bordi. Avanzavano con fatica perché il pendio era adesso più scosceso.
Il vecchio fissava il cielo, aggricciando gli occhi. La luce era agra. Il sole allo zenit. Non c’erano ombre. Sopra un macigno che strozzava il già stretto passaggio biancheggiava una carogna dalle ossa calcinate, tra residui lembi di pelame. Sgusciarono lungo la strettoia. Trovò il coraggio di volgere indietro la testa. Incontrò lo sguardo di suo figlio; gli occhi, malgrado la luce intollerabile, erano fermi. Suo figlio sollevò il mento in segno di comando. Un gesto perentorio. Avanti. Spietato. Ogni linea del suo volto era di marmo. Affrontarono la salita.
Da lì in poi il cammino era appena una feritoia tra i muri che in molti punti apparivano sbrecciati e i rovi e gli arbusti si spingevano da ambo le parti convergendo in un unico, quasi impenetrabile ammasso. Sulle braccia di padre e figlio rosseggiavano fitti righi di sangue. Già si intravedeva il culmine della balza; vi campeggiava un sorbo selvatico con la fronda trapunta di bianco. Nel folto della boscaglia un allarme indistinto aveva suscitato un volo di corvi; l’aria fu ferita dai loro stridi.
“Quello… è il posto?” chiese il padre con voce rotta. Non ricevette risposta. Pur arrabbiato, non ebbe tuttavia l’animo di voltarsi. Udiva il fiato ansante del figlio; e di nuovo la pressione dell’arma sulla schiena, con un’unica brutale spinta. Barcollò e annaspando si sostenne a una sporgenza del muro, una pietra ruvida; si lacerò la pelle tra le dita e il palmo fu ben presto irrorato di sangue. Guardò quel sangue con espressione smarrita. Gli veniva di urlare. Serrò le labbra e riuscì a trattenersi. Sbucarono in un breve pianoro.
C’era il sorbo e, accanto, un piccolo cumulo di sassi. Vi si lasciò cadere seduto, affranto. Suo figlio gli fu subito alle spalle con pochi agili balzi. Il terreno brullo e riarso era in lieve pendenza, e appena oltre il sorbo si giungeva a un ciglio sotto il quale vaneggiava una forra in un intrico di arbusti e con un torrente nel fondo. Di lato, eretta lungo la china, di modo che risultasse sbilenca e non visibile dal sentiero giù in basso, c’era una catapecchia, i muri crudi, con pietre affastellate l’una sull’altra, lasche tanto da potersi intravedere l’interno, il pavimento cosparso di biada e di sterco in una fradicia penombra; un fetore di ovini impregnava l’aria tutto intorno. Egli sedeva incassata la testa nelle spalle, lo sguardo basso. Tremava. Percepiva il fiato profondo di suo figlio.
“Ma, poi, cosa ho mai detto quella sera… Tu lo sai? Io non ricordo…” gemette il vecchio, con stanco fraseggio. Sentì una stretta di acciaio sul collo. Era la mano di suo figlio, che tra un istante gli avrebbe piegato la testa. “Mi hai portato fin qui con l’inganno… E io, contento di rivederti… dopo così tanto tempo. Sì, è vero. Hanno ragione. Il silenzio mi pesa. Sono stanco di morti…”.
La voce gli si spense in un verso strozzato; percepiva sulla nuca il freddo del metallo pungente. Quand’ecco un urlo attraversò l’aere immobile. Egli riuscì a udirlo come un suono lontano ma potente, quasi discendesse dal cielo più profondo. Qualcuno aveva gridato in realtà da lì vicino. “Fermo!”. Sulla soglia della cascina un uomo era apparso. “Basta così” colui aggiunse, e cominciò ad avvicinarsi. Il vecchio aveva cautamente risollevato la testa; suo figlio si era scostato di un passo e guardava l’uomo con l’aria di non capire, interrogandolo, con occhi pieni di sconcerto. Si piegò su se stesso portandosi le mani all’addome. Il vecchio si era alzato.
L’uomo ormai gli era di fronte. Riconobbe in lui un pecoraio del paese. Basso, tozzo, quasi calvo, una camicia a quadri rossi tutta sporca, le falde fuori dei pantaloni, barba lunga di alcuni giorni, ventre prominente, le labbra piegate in un sorriso maligno. Disse rivolto al figlio: “Bravo, sei stato bravo, ma già lo sapevo e l’ho anche detto: vedete che sul ragazzo possiamo contare…”.
Poi, mentre il figlio si ricomponeva, scrutò verso il vecchio misurandone la figura con degnazione e disprezzo. “Meritavi di diventare carne per i vermi. Ringrazia la devozione di tuo figlio”. Gli diede le spalle, e preso il ragazzo in disparte venne a sussurrargli qualcosa che certo riguardava il destino della vittima, perché infatti il ragazzo, a ogni parola di quello, annuiva guardando il vecchio con un misto di sollievo e di rabbia.
Il vecchio li osservava entrambi, in silenzio. Chinò la testa, si guardò le mani, indugiando sui palmi, quindi sollevò il viso in direzione del sole; alcune lacrime spuntarono agli angoli degli occhi. Il figlio e il pecoraio confabulavano sul ciglio del pianoro, incuranti di lui, di ciò che facesse. Il vecchio brancolò verso di loro, con le mani annaspanti, come un cieco. Gli ultimi passi furono un unico slancio. Si avventò su suo figlio, lo strinse in un abbraccio convulso. Insieme rotolarono nell’abisso.