La vecchiaia del bambino Matteo. Angelo Lumelli e la perennità dell’avventura umana
Recensione di Pasquale De Luca. In copertina “La vecchiaia del bambino Matteo” di Angelo Lumelli, Qed Edizioni, 2024
Ho avuto il privilegio di leggere in anteprima “La vecchiaia del bambino Matteo” di Angelo Lumelli (Qed Edizioni, 2024). Non ci giro attorno: è un libro straordinario, un’opera densa e magica, il più bel romanzo di autore italiano vivente fra quelli che ho letto negli ultimi dieci anni.
“La vecchiaia del bambino Matteo” è un romanzo, il suo autore un poeta (del gruppo di poeti che si fecero fragorosamente avanti negli anni ’70 come Maurizio Cucchi, Valerio Magrelli, Nanni Cagnone, Milo De Angelis, segnalandosi la forza dei versi di Lumelli fin dalle prime raccolte: “Cosa bella cosa”, Guanda, 1977, “Trattatello incostante”, Savelli, 1980). In considerazione delle caratteristiche formali e di contenuto, per questo romanzo si può parlare di prosa poetica e forse anche di poema in prosa. Fin dalle pagine iniziali ho avuto la limpida sensazione di trovarmi di fronte a un testo di robusto spessore poetico e mi sono tornate in mente le parole con le quali Ardengo Soffici descrisse le sue prime impressione alla lettura dei Canti orfici di Dino Campana: «Io trovai accenti di così pretta e forte poesia da restarne stupito» (Ardengo Soffici, Ricordi di vita artistica e letteraria, Dino Campana a Firenze, Vallecchi, Firenze 1931, pag.112).
La storia inizia con un vagone merci fermo sul binario in mezzo alle risaie, dopo essersi sganciato nella notte dal resto del convoglio, e un vecchio di quasi ottant’anni che, eludendo il controllo delle infermiere e degli altri operatori, esce in pigiama dal ricovero che lo ospita e si allontana sotto la pioggia battente. Questi due piccoli “accidenti”, separati da una settantina di anni ma uniti dall’essere entrambi atti di ribellione a un ordine costituito (l’integrità del convoglio ferroviario a cui appartiene il vagone, il regolamento interno del ricovero di cui è ospite il vecchio), segnano l’avvio del romanzo le cui vicende si alternano fra la fanciullezza e la vecchiaia del narratore e dei suoi amici e compagni di scuola Matteo, Ernestino e Guglielmo. Il vagone viene recuperato il giorno successivo con una locomotiva diesel, il vecchio (è Guglielmo, il compagno di banco del narratore) alla fine viene «catturato, caritatevolmente, riportato indietro» e la storia va avanti fra l’allora e l’adesso dei personaggi che si muovono in una dimensione di compresenza di passato e presente, fanciullezza e vecchiaia.
In una lettura critica della poesia di Lumelli, pubblicata nel fascicolo n.120, ottobre 2021, della rivista Il Segnale, Luigi Ballerini usa l’espressione “l’adesso di allora” ed io trovo che essa esprima con efficacia il concetto astratto a cui rimanda il titolo “La vecchiaia del bambino Matteo”: il presente del passato tanto in senso biologico (vecchiaia) quanto come attualità (permanenza) di quello che fummo.
Il narratore, oramai vecchio, torna a visitare il luogo dove il vagone si era fermato. E va anche a trovare l’amico Gustavo nel ricovero per anziani. Lo vede immobile, intento a fissare le fughe fra le piastrelle e il paesaggio fuori dalla finestra, probabilmente incapace di distinguere le sagome esterne da quelle dentro alcuni dipinti che sono appesi alle pareti. Gustavo fa avvicinare l’amico alla finestra e gli illustra il suo progetto: ricevere e ritrasmettere segnali di fuoco di postazione in postazione, come anticamente si faceva da torre a torre, da poggio a poggio, così da far percorrere al messaggio distanze lunghissime, illimitate. Altre volte il narratore si reca a trovare l’amico nel ricovero e deve prendere atto che il progetto dei segnali di fuoco è il solo ricettacolo della minima vitalità rimasta in Gustavo che «si svegliava dal suo torpore soltanto se vedeva segnali, soprattutto segnali di fuoco, come nei tempi antichi, da torre in torre, da collina a collina» (pag.213).
Il narratore torna a casa, spuntano delle foto in cui compare il compagno di classe Matteo, e i ricordi delle elementari dilagano: gli amici del cuore Matteo e Ernestino, le prime esperienze con il calamaio colmo di inchiostro, i compagni e le compagne, la maestra Concetta, dolce e severa, giusta e ingiusta, quel giorno in terza elementare che venne l’ispettore scolastico, la sua gentilezza con gli alunni, la galanteria con la maestra Concetta, il rossore spuntato sulle guance della maestra. E poi le marachelle, le disubbidienze, i progetti visionari che in quinta elementare si spinsero fino a programmare e mettere in atto bombardamenti immaginari per far crollare i muri delle case e scoprire l’ignoto delle vite degli altri, gli interni delle case, le camere, le intimità, i segreti nascosti nel chiuso degli edifici.
Due dei quattro amici, Ernestino e Gustavo, se ne vanno, in epoche e con modalità differenti, ma entrambi verso il cielo. Ernestino abbracciato a una santa, Gustavo alla guida di un escavatore. Ernestino, è entrato in una chiesa, si è fermato sotto la cupola del transetto a guardare le figure dei santi nei quadri e negli affreschi e queste hanno iniziato a muoversi sono scese e presto hanno riempito la chiesa. Solo sante, santi, cielo e nuvole, però, mentre i carnefici delle scene di martirio restano immobili, prigionieri dei loro atti sacrileghi.
La folla dei santi, con tanto di corredo di cielo e nuvole, si muove, esce dalla chiesa portando con sé Ernestino, il corteo percorre vicoli, oramai sono migliaia di figure. Ad un tratto una santa allarga le braccia ed Ernestino «salì, attirato contro di lei». Gustavo, invece, sotto gli occhi del narratore, alla guida di un escavatore compie una folle corsa lungo i campi in discesa fino a scomparire catturato dalle stelle: «Di Gustavo non c’era traccia. Anche l’escavatore non fu mai più ritrovato. La scomparsa fu denunciata ai carabinieri – io mi sono guardato dall’andare a testimoniare, in un paese senza passato, rischiando di essere preso per visionario, per contaballe» (pag.231).
Restano in due, Matteo e il narratore, ma anche gli altri due amici, Ernestino e Gustavo, nonostante siano finiti in un duplice altrove magico e misterioso al tempo stesso, non smettono di essere insieme a loro. La scrittura di Lumelli ha un andamento ritmico, soprattutto grazie al sapiente ricorso a un tipico artificio stilistico, la figura retorica della ripetizione, consistente nella reiterazione di parole o sintagmi nella medesima frase o in un medesimo dialogo. Qualche esempio:
«Chi ha cominciato con questo casino? – chi ha cominciato a fare il furbo?» (pag.5)
«Un vagone perso? hanno perso un vagone?» (pag.8)
«Guardate che avete perso un vagone!… come perso un vagone?… noi abbiamo perso un vagone?» (pag.14)
«Un bambino tolti gli adulti […] tolte le cose che vede […] tolto il suo silenzio, tolti i gridolini […]» (pag.19)
«Come si fa a cambiare la luce degli occhi? […] Come si fa a cambiare in generale? […] Come si fa a vedere la stanza della maestra Concetta […]?» (pag.71)
Il testo ha uno sviluppo circolare, l’inizio e la fine del racconto (del viaggio, dalla fanciullezza alla vecchiaia) coincidono, l’adesso di allora è l’allora di adesso: «Passarono un po’ di stagioni, voltando e rivoltando cielo e terra, come al solito. In quegli anni il passato peggiorò, nei miei confronti. Invece di diventare ricordo, come tutto ciò che esiste, al solito modo, scappando di mano – poi ripresentandosi, irrimediabilmente – ecco che il passato mi balzò davanti, come se volesse farmi rifare tutto il percorso, a memoria – quel giorno quell’ora con questo con quello e perché e percome, eh cristo! – e diamine! Ciò accadde, io penso, per indebolire il mio presente, per pura vendetta – così come io, secondo lui, avrei fatto a suo tempo, sottraendomi all’allora presente, oggi passato – ah non ditemi che ci giro intorno, che faccio mille giri prima di arrivare al confessionale, come da bambini, non dicendo mai tutto, così che la colpa aumentava, oh piccoli peccatori! infingardi!» (pagg.219-220)
“La vecchiaia del bambino Matteo” parla del passato e del presente, ma in realtà quello del romanzo è un tempo immobile. Un tempo che non passa, è eternamente presente, è l’attimo che contiene in sé tutto e non ne (dis)perde nessuna frazione. A questo punto diventa ineludibile una domanda: che cosa è il tempo? Per Sant’Agostino il tempo non esiste per sé ma solo come dimensione intima dell’animo umano: «il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa.» (Confessioni, XI 20, 26) e analogamente per Lucrezio (De rerum natura, libro I, vv.459-463): «Anche il tempo non esiste per sé (tempus item per se non est), ma dalle cose stesse deriva la percezione (sed rebus ab ipsis consequitur sensus) di ciò che si è compiuto nel tempo (transactum quid sit in aevo), di ciò che è presente (tum quae res instet), di quello che poi seguirà (quid porro deinde sequatur).»
Diverso è l’approccio di Lumelli in “La vecchiaia del bambino Matteo” con l’ente/non-ente tempo. L’autore si fa Dio e contempla la vita che narra nella sua interezza, dal primo all’ultimo istante, dunque vede, sente, e perciò “sa”, che il tempo lineare non esiste. Se non esiste e tuttavia viene percepito, allora non può che trattarsi di un’illusione, la percezione di qualcosa che in sé non esiste. Deve essere chiaro che a non esistere è il tempo lineare, quello che passa e non può più essere vissuto se non nel ricordo come immagine.
Ma il tempo che abita “La vecchiaia del bambino Matteo” è un tempo che non svanisce. Il tempo che passa (l’attimo che fugge) non si dilegua (diventando recuperabile solo con la memoria) ma resta in fase di quiete in un eterno presente potenziale nel quale, per passare da potenza ad atto (s)occorre (ed è sufficiente) la forza ri-generatrice della parola. E allora, non la memoria fa rivivere il passato (essa è in grado solo di darne un’immagine, un idolo, un’icona) ma è la forza creativa della parola scritta che richiama il passato dallo stato di quiete e lo fa essere di nuovo, adesso, quello che è già stato la prima e tutte le n volte che è già stato (ripetendosi uguale identico, come nella teoria dell’eterno ritorno propugnata dagli Stoici sulla ciclicità del Cosmo).
I protagonisti (il narratore e tre suoi amici, così come vari altri personaggi che troviamo nel romanzo) agiscono (e l’autore ce li presenta) in un adesso che tale è sia di ora che di allora. Lumelli raggiunge l’effetto grazie a una prosa irriverente, a tratti ribelle, che accerchia di quando in quando le regole della sintassi, ne dimostra la natura (in tali occasioni) di gabbia formale e si lancia in costruzioni ardite – segnatamente per la violazione di canoni della concordanza dei tempi verbali – ma che anche grazie a questi atti di disubbidienza realizzano momenti di intensità narrativa di grande efficacia, ponendo sotto gli occhi del lettore una magica e credibile contemporaneità di ogni fase e stagione della vita.
La scrittura sapiente di Lumelli e qualche artificio sintattico (libertà sulle concordanze temporali, magistralmente giocate, come l’uso nella stessa proposizione o in proposizioni coordinate di diversi tempi, in particolare, ma non solo, il passato remoto, che esprime distanza temporale e psicologica dalle cose narrate e il passato prossimo, che attesta l’attualità, la vicinanza fra il narrato e il narratore ) realizzano l’incanto di far ri-vivere il passato insieme al presente riuscendo a coinvolgere in modo assai efficace il lettore. Di seguito qualche esempio:
«[…] gli dico, per incoraggiarlo. Roba da niente, mi risponde. Gustavo si mise di nuovo a guardare la fuga delle piastrelle.» (pag.26)
«Allora Gustavo mi illustrò il suo progetto […] e mi portò davanti alla finestra, come per farmi capire: guarda! mi ha detto.» (pag.27)
«Matteo vede che Rosalba sta per raggiungere il campo […] si guardano da lontano […] Rosalba non fa la mossa […] Matteo non fa la mossa […] corrono in parallelo […] lasciando due strisce nel campo d’erba medica. Porca vacca! esclamò Ernestino.» (pag.45)
L’adesso di allora nel romanzo di Angelo Lumelli, dunque, è il passato che ri-vive, vive ancora grazie alla potenza evocativa dell’autore che porta il passato ad essere nel presente, nello stesso, unico istante dell’adesso. Queste suggestioni la prosa poetica di Lumelli sa trasmettere al lettore, trascinandolo con gentile fermezza dentro i fatti che narra, a vivere un’intensa, indimenticabile avventura del cuore e della mente.
Ancora qualche parola sullo stile narrativo di Angelo Lumelli. C’è un dipinto di René Magritte del 1929 che raffigura una pipa e nella parte inferiore reca la scritta «Ceci n’est pas une pipe». Scritta veridica, infatti quella non è una pipa ma l’immagine di una pipa. Si vede una pipa ma non c’è una pipa. La realtà non è (quasi) mai come la si vede e quello che si vede non è (quasi) mai la verità. Con Magritte possiamo dire che «la verità è soprattutto immaginazione» (nello scritto Les mots et les images, 1929).
Ebbene i quattro principali personaggi del romanzo di Lumelli (il narratore, Matteo, Ernestino, Gustavo, ma anche Diodato, il lettore che litiga con i romanzi che legge) sono dotati di una immaginazione potente e transitiva, che si proietta sul mondo che vedono (percependo – in ogni angolo, scorcio, evento, fotogramma, atomo – la presenza d’una didascalia che attesta: Questo non è il mondo reale) e lo ri-crea, facendone realtà. I ragazzi danno vita a bombardamenti immaginari sulle case per portare alla luce le vite altrui estraendole dalle gabbie di mattoni e cemento in cui sono racchiuse, vedono le cose che abbandonano i propri spazi e i fatti che si separano dalle frazioni di tempo in cui sono avvenuti, si muovono in atmosfere che richiamano le opere del periodo cubista di Marc Chagall, con le figure che galleggiano nel cielo facendosi beffe delle leggi della fisica (come nelle già citate pagine che narrano l’assunzione in cielo di Ernestino e la via delle stelle intrapresa da Gustavo).
Leggendo “La vecchiaia del bambino Matteo” ci si accorge presto che siamo immersi in un sentiero stilistico a metà fra le evocazioni visionarie dei Canti Orfici di Dino Campana e il surrealismo razionale (o “fantastico figurale”, come definito da Adriano Piacentini in Tra il cristallo e la fiamma) di Italo Calvino. In questo stupendo romanzo Angelo Lumelli realizza una forma personalissima di realismo magico, unendo e separando, a ritmo e intensità disuguali e mutevoli, visione realistica e fattori magici così da rendere indistinta la linea di confine fra realtà e fantasia. Con effetti a volte stranianti, eppure mai privi di magia.