Valigie di cartone
Racconto e foto di Giuseppe Gervasi
Cosimo e sua madre, estirpati come un albero di ulivo dalle proprie radici, avrebbero presto conosciuto un nuovo continente. Il lungo viaggio, le valigie di cartone, un sogno in movimento sopra l’acqua e il desiderio di arrivare presto in Argentina. La traversata dell’Atlantico durò quasi due mesi, con una visuale sempre identica: onde che battevano sulla pancia della nave e notti insonni tra la puzza di vomito.
Non si arrivava mai! Dov’era andata a finire la terra? Ci fu qualche compagno di viaggio che perse la vita lungo il tragitto, stroncato dalla fame, dagli stenti e dai malesseri del viaggio che il fisico già provato dalle sofferenze di una vita non riuscì a sopportare più. Ben presto, si fecero largo il sospetto e l’amarezza che non avrebbero mai conosciuto la capitale Buenos Aires con la sua meravigliosa Plaza de Mayo e i suoi edifici signorili del XIX secolo tra cui la Casa Rosada, il celebre palazzo presidenziale.
Quel viaggio tolse a Cosimo e a sua madre Anna un pezzo di vita e l’arrivo a Buenos Aires non avrebbe restituito ciò che per sempre era stato, nel frattempo, perso. Nella Capitale argentina il giovane Cosimo e sua madre giunsero nei quartieri, dove altri italiani li avevano preceduti, con conventillos fatiscenti tra mucchi d’immondizia. Abitarono per molto tempo immersi nel degrado di uno di questi luoghi. D’estate si soffocava, bisognava lasciare la porta aperta e la notte non si dormiva tormentati dai mosquitos.
Faceva un freddo boia d’inverno e quando pioveva gocciolava dentro, tutto sapeva di muffa. Nel terreno dietro la casa di Cosimo e sua madre Anna c’era un gabinetto in comune con gli altri, una sorta di latrina che veniva mantenuta, per quanto possibile, pulita, solo grazie alla buona volontà e al rispetto dei propri simili. Accanto al bagno, un lungo lavatoio di cemento in mezzo alle erbacce, utilizzato per lavare i panni e i corpi. Si tentava di levare dal proprio corpo gli odori di Calabria, i profumi intensi degli agrumi, della cipolla, dell’aglio e la fragranza inebriante del mosto che presto sarebbe diventato nettare rosso.
Nella mente di Cosimo che davanti a un pezzo di specchio, al quale il tempo aveva smussato gli angoli e sottratto il nitore originario, portava i capelli neri all’indietro distribuendo meticolosamente un goccio di brillantina, passando e ripassando il pettine sulla folta chioma, nonostante il fruttuoso lavoro nei campi e l’attività di commerciante all’ingrosso, ben presto si fece strada il triste pensiero che non avrebbe vissuto a lungo per rivedere l’amata Italia. Aveva davanti a sé solo migliaia di chilometri per lavorare nei campi, in terreni donati dal governo argentino agli immigrati. Che strana coincidenza: la vita sa essere beffarda quando vuole! La notte, nel silenzio della propria casa, Cosimo fece un’amara confessione alla madre:
“Una volta che si passa il mare rinchiusi due mesi in una prigione galleggiante, ci si indurisce, è la disperazione di affrontare un mondo di cui non si sa niente. Non si conosce neanche il paesaggio e la lingua, è il crollo dei sogni di una ricchezza facile, il tormento degli atti finali. È tutto questo che fa impazzire, si diventa cattivi e si maledice il cielo. Si soffre nel profondo, sentendosi colpevoli di aver abbandonato la propria casa”.