Ur e il suo uomo

Ur e il suo uomo

“Ur e il suo uomo” è un racconto di Rocco Giudice. Foto di Martino Ciano

Che cosa chiede una creatura che chiama se stessa ‘io’? Chiede di essere. Una bella pretesa!
Czeslaw Milosz.

In un momento in cui la strada s’animò più del solito e lampi di torce filtrarono dagli spiragli alle finestre lasciate socchiuse per il caldo e smossero ombre dagli angoli e anch’egli si rivoltava come per scrollarsi di dosso definitivamente il sonno e il sudore, scorse un’ombra dallo spessore inconfondibilmente vivo ai piedi del letto su cui era sdraiato. Una delle donne che partecipavano ai bagordi della notte e introdottasi, per sfida o per errore, nella casa in cui s’annidava il suo capriccio s’era imbattuta al primo insorgere.

Chiunque fosse questa devota ai sensi che prestavano un orgasmo agli dei, egli aveva in mente la ragazza cui aveva dato un nome mai prima udito, un breve suono che pareva prolungarsi nell’eco che suscitava come il ricordo in cui invocarlo. Un nome che poteva essere di donna o d’un colore: era il colore bruno della sera prima: adesso, il chiarore diafano delle torce nelle strade, che infondeva stupore e euforia ai volti, nel chiasso e nella polvere, nella folla che rimescolava afrori come se fra le viscere e la pelle non ci fosse distinzione né differenza, un solo miscuglio da cui non avrebbe avuto senso difendersi.

Con ciò, era annullato il ricordo che evocava un nome cui, per non riservare all’estranea quell’abbandono peggiore del disprezzo, era rimesso l’interrogativo che permetteva a lui di resistere: così che poteva chiedersi: chi sarà, chi l’avrà, chi può saperlo?

Nessuno. Bisognava, perciò, non avere un nome, bisognava lasciare la propria casa, abbandonare la famiglia, lasciare quella vita, dimenticare tutto. Solo improvvise obnubilazioni, subitanei mancamenti che lasciassero più spossati, simili al relitto di un’inondazione o di una siccità, resi disperati e invincibili.

Una mistura dolce e fredda gli mordeva le tempie e la nuca. La notte era diventata un campo luminoso sotto il pieno splendore solare come lo sarebbe stato se l’avessero incendiato al lume della luna.

La colomba bianca era nera, in realtà o sapeva di trovarsi dentro un sogno e di poter mutare a piacimento tinta al suo piumaggio; anche lo zufolo, adesso, era fiorito, con ciò rivelando l’inganno d’essere non altro che un pezzo di legno pietrificato e spacciato per osso. I morti venivano in sogno e venivano senza chiedere: perché tu veda senza vedere e sappia senza sapere: tale è la gelosia del Vero, più forte di quanto non lo sia la foia di chi si congiunge alla Menzogna. Lui li pregò perché non scambiassero il loro sogno per il suo.

Gli dèi non potevano provare dolore – e dunque, non gli era dato comprendere il sacrificio – né desiderio – e perciò, gli era tollerabile il piacere, goduto senza il turbamento irresistibile cui è umiliante sottostare –; ma, soprattutto, questo, il sacrificio, verso cui non provavano curiosità, come non provavano vergogna per il piacere cui s’abbandonavano, esigendo per sé anche quello degli umani.

No, gli dèi, peggio per loro, non conoscevano il sacrificio, anche se potevano morire combattendo nell’una o nell’altra schiera celeste: non per l’uomo morivano, ma la loro morte doveva essere riscattata o l’immortalità loro cara propiziata dalla morte degli umani, i quali non possono rifiutarsi e non saranno mai ricompensati, cui deve bastare l’onore d’essergli immolati, col sangue o la rinuncia; e così, il loro piacere doveva essere prolungato come una libagione riservata nel modo che meno li offendesse, perché il rito non implicasse il prevalere del desiderio, che gli era precluso.

Gli dèi esigevano l’effusione del sangue e delle lacrime, volevano per sé l’ebbrezza dell’orgasmo e come mezzani, favorivano gli amplessi e si appropriavano dello spasimo dell’eiaculazione. Non erano meno rozzi dei selvaggi dell’Elam e anzi, inferiori persino alle cavalcature di quei barbari; o alle linci, le linci nel frutteto, di guardia alla luna, pasciute con le offerte votive e con le carni abiette di schiavi ribelli e rei decapitati. I barbari sarebbero venuti a depredare e distruggere la Prima Regina delle Città, per sterminare i suoi dèi miserabili e cibarsene. Gli spiriti buoni lasciano operare il male ovunque, in mille forme; poi, per le loro ridicole vendette, al solo fine di farsi beffe dei docili e puri di cuore e non per rendere loro giustizia, eleggono a strumenti della propria ira popoli incivili. Se permettevano il male, su di loro ricadesse la loro ira! Accettassero almeno di soffrire i patimenti che s’abbattono sugli uomini!

E svegliatosi o sognando di svegliarsi per il nome urlato in sogno, uscì al fresco

Ah, la rosa è appassita e triste è l’usignolo! Il fiume era d’argento, la terra era nera. Pianse, pianse per le lavandaie, che sbattevano e strizzavano la propria carne cantando con coraggio; e per i cavalieri, che nutrivano delle proprie membra sciacalli e avvoltoi, cibandoli con le proprie mani, mentre la morte bifronte veniva all’attacco, con otto zampe che terminavano in artigli e doppia fila d’ali, piumate le superiori e l’altre membranose, in posizione obliqua; i bufali dalla cervice spezzata: al bufalo s’annebbia la vista: nulla è lucido al suo occhio; ma quella tenebra lo sgomenta più di tutto: infine, anche la polvere è buona da respirare

Fuggì. Corse, inseguito da un cane che rinunciò presto a lui; attraversò piccole volte dov’era stipata gente che dormiva accovacciata o s’accoppiava all’in piedi, straccioni introdottisi di nascosto in città in cerca di fortuna e ora, per colmo di sfortuna, non sapevano come fare per uscirne; servi mutilati e gettati per strada dai padroni o perché vecchi o ammalati; e forestieri venuti per concludere lucrosi affari e spogliati di tutto un’ora dopo l’arrivo; travolse una guardia che gli aveva bloccato il passo: salutò silenziosamente la luna chiamandola Jasmeen.

Aveva attribuito la sua innegabile disposizione all’obbedienza a difetto di discernimento: come capisci sempre bene le cose per cui non c’è rimedio! La saggezza, non lo vedi?, abbandona il suo consiglio, che non dà conforto e inasprisce il tedio, con l’intento di scrutarlo con maggior diletto, se non con più profitto. Io non ho creduto a nessuno e potevo dubitare fosse allo scopo di sottrarmi al potere delle parole di chi è più saggio di me.

Però, lo ammise: è vero unicamente quello che non potrebbe capitare solo a me! Sapendo questo, per approfittare della mia ingenuità o per punire la mia presunzione, essendo entrambe un’unica cosa che differisce solo in relazione alla vostra convenienza, voi tutti mi avete ingannato. Voi! – tutti! – mi avete ingannato!

Nel silenzio, tutto questo sarebbe durato in eterno; sarebbe durata in eterno quella diatriba puerile e quell’angoscia matura che asserviva la mente con i suoi sospetti: tutto sarebbe morto in eterno, nulla sarebbe stato vero di quello che accadeva a lui: nulla mai era stato, il mondo era nato morto per risparmiare a tutti un’agonia più dolorosa di quella che pareva affliggere chi si credeva vivo: già non c’era nulla (il fiume? La terra? Le stelle? Erano davvero qualcosa?) e si poteva accettare con animo leggero quella pace che sarebbe stato solo il corpo a scontare.

E fu così che sentì accadere l’altra cosa, che s’impossessò di lui in ogni fibra, partendo dalle ossa da cui pareva lo volesse svellere: la voce che gridò, mai prima udita perché potesse essere da lui riconosciuta (pertanto, non poteva sapere se stava sognando o no) il nome ch’era giunto ad aborrire e ora e per sempre, da quel ribrezzo riscattato e reso memorabile: Avraam!

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