Salvatore Toma. Un beffardo Rimbaud del profondo Sud

Salvatore Toma. Un beffardo Rimbaud del profondo Sud

Articolo di Dario Stanca. “Poesie 1970.1983” di Salvatore Toma, Musicaos, 2020

“Viviamo in un’epoca in cui il valore degli autori è inversamente proporzionale ai colpi di grancassa che si suonano in loro onore. Il meglio resta nascosto”. Così scriveva, con tutta l’irriverenza che gli era tipica, un grande outsider della cultura italiana, Anacleto Verrecchia.

Poeti e scrittori, spesso, non sembrano altro che pure invenzioni di scaltri editori, effimeri progetti editoriali destinati soltanto a soddisfare i gusti, mediocri e limitati, di una fantomatica platea letteraria. Così, immeritamente nascosta dall’infestante sterpaglia letteraria, rischiava di rimanere l’opera poetica del salentino Salvatore Toma, morto a soli trentacinque anni, il 17 marzo del 1987. Era nato a Maglie l’undici maggio del 1951.

Il fuoco della poesia era divampato assai presto, insieme a quello dell’insofferenza alla cultura “istituzionalizzata”. Non fu per nulla un alunno modello al ginnasio-liceo “Francesca Capece” di Maglie. Per due anni di fila si rifiuterà di presentarsi all’esame di ammissione al liceo, per poi interrompere completamente gli studi.

Nel 1971, ormai ventenne, si ripresenta a scuola deciso a sostenere gli esami di idoneità alla terza liceale e, per chiara fama, l’anno successivo, con già ben due pubblicazioni di poesia, viene ammesso agli esami di Stato. “Il giovane è molto dotato per l’attività poetica”, si legge nella motivazione e il professore di lettere aggiunge: “Vive di sé, del suo mondo poetico; […]si è interessato allo svolgimento del programma con personale e poetica interpretazione”.

Racchiuse la sua produzione poetica in sei volumi:

Poesie (Prime rondini) (1970);
Ad esempio una vacanza (1972);
Poesie scelte (1977);
Un anno in sospeso (1979);
Ancora un anno (1981,2007)
Forse ci siamo (1983).

In qualche modo cercò di attirarsi l’attenzione inviando le sue opere ai maggiori critici e poeti di allora. Scriverà a Martin Andrade, Giuseppe Conte, Mario Luzi, Maria Corti, Valerio Magrelli, Giovanni Raboni, Silvio Ramat e al già premio Nobel Eugenio Montale. Proprio quest’ultimo nel 1980, probabilmente in riferimento a Un anno in sospeso gli risponde: “Il suo libro mi sembra interessante e la ringrazio di avermelo fatto conoscere”.

Mentre Giovanni Raboni, alla lettura di Poesie scelte, gli scrive: “Lei possiede un ‘segno’ molto netto, incisivo, e la capacità di concentrare idee e emozioni in uno spazio quasi epigrammatico di notevole efficacia” (1978).

A Valerio Magrelli, invece, Salvatore Toma, ricorda Cecco Angiolieri: “C’è un grande rancore nei tuoi versi”, e ancora “disperazione di certe immagini […], come quando pensi alla morte e alle sue figure” (1980).

Fu, tuttavia, la filologa e scrittrice Maria Corti, conosciuta nel Salento, a interessarsi fattivamente alla sua produzione poetica, dapprima occupandosi di far pubblicare alcuni suoi inediti sull’Alfabeta del 18 ottobre 1980 e poi facendo uscire presso la prestigiosa “Collezione bianca”, Einaudi (1999) il “Canzoniere della morte”.

Non si trattava di una pubblicazione postuma dell’autore, ma di una esigua e personalissima selezione da parte della curatrice, che fece diventare Toma, sostanzialmente, un poeta della “morte”, falsandone addirittura le cause del decesso. Tutta l’opera del poeta salentino, secondo la studiosa, avallava “l’aristocrazia intellettuale di una scelta”: quella del suicidio, cercato attraverso uno smodato abuso di alcool.

Ma Salvatore Toma non si suicidò e la prima a dissentire da questa manipolazione, fu proprio la moglie, Paola Antonucci, secondo la quale, in nessun modo e per nessun motivo, il marito avrebbe inteso togliersi volontariamente la vita. Dall’abuso di alcool cercava, infatti, di disintossicarsi. A ulteriore conferma, anche le parole proferite in punto di morte ai due carissimi amici, Antonio Verri e Antonio Errico: “Ci disse in un soffio: i bambini. Avrei voluto veder crescere i bambini”.

L’opera di Maria Corti, seppur con colpevole ritardo, (Toma era già morto da ben dodici anni), aveva avuto comunque il merito di presentare finalmente le poesie del poeta di Maglie, alla ribalta nazionale; un’opera che probabilmente sarebbe rimasta arenata sulle spiagge salentine, sfracellata sugli scogli del suo splendido mare.

Certo, il tema della morte è molto presente e attraversa tutta l’opera di Toma: l’aveva sfidata, corteggiata, con lei era sceso a patti; ma come scrive il critico Antonio Errico, il poeta “conosceva la morte come può conoscerla solo chi conosce la vita”. Quella morte che rende possibile ancora un’ultima emozione, che permetterà, per dirla con Vincenzo Cardarelli, poeta amato insieme a Leopardi, di “non essere aggrediti”, di lasciare all’uomo ancora il tempo di “dire al mondo addio”, che si annunciasse da lontano come “l’estrema delle mie abitudini”. Lezione che Toma fa propria.

In Morte carnale scriverà infatti:

Ti temo solo imprevista
Morte carnale
Ti temo se la tua pelle d’ombra
se la tua fretta d’animale
mi sorprende a breve vista
Se tu mi chiamassi piano
Come l’ora si chiede ad un passante
/Spolvera la tua dignità / diresti
/Vissuto amante/
Cuore non t’allargherei scontroso
Ma risorto gioia
Palpiterei /eccomi riposo /

Toma non è il poeta esclusivo della morte: fu cantore della vita, dell’amore, della donna, della natura, della libertà, degli animali, e tutto guardava con innocente purezza, anarchica meraviglia.

“Lei è un po’ matto” gli aveva scritto Maria Corti, ma questo è il mondo di Toma, un mondo pieno di simboli. La sua poesia più che rappresentarlo semplicemente, riproduce, con estrema tensione, il suo “modo di vedere” il mondo. Il poeta salentino non altera il reale, se ne impossessa per “spremere” e ottenere quanto di più puro a esso appartiene e lo fa con una meraviglia e un candore quasi infantili. A nascere da uno stato di “meraviglia” non sarà dunque soltanto lo sguardo filosofico:

non mi riusciva ancora di capire
come facessero a nascere
in così poco tempo
tele di ragni tanto bianche
sui cornicioni del vicino castello
[…]

Toma guarda la realtà con gli occhi di un visionario, in un’alchimia che impasta non soltanto vita e scrittura, ma anche, e soprattutto, fantastico e reale senza alcuna contraddizione; un vocabolario che sembra riconoscere soltanto l’istinto, una scrittura esasperata e disperata, una violenza di colori e sensazioni.

La pubblicazione di Poesie (1970-1983), su iniziativa e cura di Luciano Pagano (Musicaos Editore, 2020), vedrà finalmente raccolta tutta la produzione edita in volume del “beffardo Rimbaud del profondo Sud”, come lo descrive, affettuosamente, il poeta e critico Vittorino Curci. Tale meritoria opera conferma ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, che il modo migliore per ricordare degnamente un autore, resta quello di ristamparne l’opera.

Di Salvatore Toma non si potrà che ripetere quanto espresso da Cioran a proposito del grande poeta rumeno Mihail Eminescu: “Un poeta, uno spirito supremamente autentico”. E chissà, questo il nostro sommesso augurio, che i dieci autori per una contro-antologia del Novecento – come recita il sottotitolo del volume Maledetti italiani, a cura di Davide Brullo – possano un domani diventare undici.

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