Parliamo di tennis… no?
Articolo di Saverio Di Giorno
Parliamo di tennis. Ci sono gli incendi. Dunque, parliamo di tennis. C’è il mare sporco, la criminalità che ha deciso di riconquistare tutto. Quindi parliamo di tennis. C’è povertà, gente stanca e il bisogno che mangia le persone. Allora parliamo di tennis. Parliamo di uno sport elitario, sport di fascette e tutine linde, di pubblico silenzioso (una volta) e prati di Wimbledon. Anzi parliamo di Djokovic.
Per chi non lo sapesse il neocampione-olimpico-trentasettenne (bisogna per forza dirle insieme queste tre cose), è uno dei sopravvissuti della più grande stagione di tennis da quando questo sport esiste (se non altro per titoli e prestazioni). Quella di Federer, Nadal e poi appunto, Djokovic. Mai nessuno come loro.
Federer il fuoriclasse svizzero, elegante quando parla, elegante quando gioca, sembra addirittura non sudare. Conosce le traiettorie della pallina meglio di un fisico teorico. Nadal è l’energia e la potenza. Infortunato, caduto, risalito, il più forte in assoluto sulla terra, forse la superficie più dura. È il fuoco spagnolo. Djokovic non è nulla di tutto questo. Non è elegante nemmeno nei lineamenti, balcanici, spigolosi. Non infiamma il pubblico. Dalla sua la freddezza, la resistenza mentale ogni oltre stress-test. Non gli è venuto facile giocare, ha dovuto limare i colpi, provare e riprovarli. Solo poi ha raggiunto l’efficacia ovunque.
Efficacia appunto, non bellezza. Resistenza, non potenza. Elasticità, non eleganza. Rabbia, non talento cristallino
Tra talento e rabbia, quanto è più avvincente la rabbia! Il talento è una mazzetta della natura, una raccomandazione dell’universo al destino. Alla legge del più talentuoso si oppone quella dell’arrabbiato. E questo fa Djokovic: si ribella alla natura, sembra aver trovato il modo per governare le leggi della biologia, delle reazioni delle cellule per rallentare l’invecchiamento e vincere a 37 anni contro uno di 21.
Si alzano le schiere di puristi: e dunque è la vittoria l’attrattività di Djokovic? Nel fatto che vince? Ma non sono più poetici il gioco, la partecipazione, la lotta aldilà del risultato? Non sempre.
Lo è se vieni dalla Svizzera o dalla Spagna. Non lo è se vieni dalla Serbia. Per i due possedere una racchetta da tennis è stato un punto di inizio, per il serbo già una vittoria, un punto di arrivo. “Volevo dimostrare che ci sono anche Serbi buoni”, ecco l’obiettivo dichiarato di Djokovic.
Nole è un pozzo senza fondo di contraddizioni, Novax, con simpatie nazionaliste. Capace di sfruttare tutti i giochetti e i trucchi psicologici per vincere, le pause, le proteste. E poi le provocazioni. Lui personalizza, risponde con le provocazioni alle provocazioni, mentre Federer abbozza. Si carica del tifo contro, del clima da arena. È un continuo dimostrare, rilanciare. Vincere, appunto.
Perché, se il tuo mondo non ti dà seconde chance, o vinci o scompari. L’importante è partecipare solo se partecipare è normale, solo se ci sono mille occasioni per vincere. Ma se vieni dal nulla allora non ci sono mille possibilità, potresti averne solo una – solo quella – e allora la devi usare per vincere. Per strapparti il tuo posto al mondo, come fa il cane all’osso. C’è uno stimolo che viene dalla motivazione, dalle risorse, e c’è uno che viene dalla disperazione, dal nulla. Anche su un territorio che brucia delle bombe della Nato può germogliare il talento, ma non si innaffia di grinta, ma di rivalsa.
Ma poi, quanto è facile innamorarsi dell’eleganza di Federer, dell’energia di Nadal. È l’attrazione della testa, dell’avere sempre ragione, la supponenza di essere belli e giusti. Molto più difficile innamorarsi di Djokovic. Così respingente nelle sue stupide prese di posizione, del suo cristianesimo ostentato. Ma la seduzione è del grigio, delle contraddizioni. Quelle inestricabili, quelle irrisolvibili. Il sentire senza dover per forza condividere, capire. Il percepire i torti, le motivazioni, senza seguirne le ragioni.
Djokovic è l’orgoglio del diverso (e cattivo) a cui non è personato nulla se non la vittoria. Perché se sei un’anomalia, un errore in una regola, l’errore non può farsi legge. Può essere solo eccezione. Essere costretti a dover riconoscere all’altro un’individualità sua, una sua eccezionalità, che non ci appartiene. È la forma più alta dell’amore. Abbiamo parlato di guerre, di disgraziati, di errori che vogliono esistere. Di uguaglianza senza equità. Di orgogli e mancanze da colmare. Di vuoti. Di rivalse che si fanno giustizia.
Abbiamo parlato di Calabria e di calabresi.