Tengo n’ata

Tengo n’ata, foto di Adalgisa Giannella
“Tengo n’ata” è un racconto di Adalgisa Giannella. La foto in copertina è stata fornita dall’autrice
Si sarebbe mangiato il mondo se glielo avessero permesso piuttosto che brioche e nutella, salami, mortadella, vasi di gelato, alette di pollo piccanti, lasagne bolognesi, nocciole, freselle e crostoni con salse di ogni tipo.
Mangiarsi il mondo le sarebbe costato meno.
Invece teneva fame assaie da quando Lino l’aveva lasciata con quattro parole scritte su di uno scontrino del supermercato, tenuto stretto dal tergicristallo della sua Cinquecento: “Tengo n’ata. Addio”.
Da quel giorno ci stava un buco dentro la pancia che parlava e ripeteva ossessivamente: fame, fame, fame.
Dopo averlo riempito con ogni sorta di munnezza, la voce si faceva cattiva: libera, libera, libera.
Correva in bagno e si ficcava l’indice in gola, solleticando l’ugola fino a che un vomito in technicolor non si spandeva sulle pareti del water, qualche schizzo pure per terra e sul bidet accanto.
L’aveva scoperto da un mese che il vomito faceva più dei lassativi, perché il giorno dopo la bilancia, anziché segnare sessanta segnava cinquantacinque e poi cinquanta e poi quarantaquattro, fino a che non si era pesata più, perché era svenuta per strada. E mò guardava le pareti bianche della stanza nella quale era ricoverata e fissava incazzata la goccia che stilla a stilla cadeva per trovare posto into sang com foss na zuppiera da abbuttà.
“Tengo n’ata. Addio”
Ci sfarfalliava sta fras tutti i juorn inta capa soa e guai a piangerla comm na puvuriella sfurtunat, lei n’ata voleva essere, a costo di sparire.
In ospedale corsero mamma e papà, i fratelli Titina e Alex, due amici che ancora non la mandavano affanculo, aspettando che le tornassero le forze, senza capire che quelle forze fatte di grasso e muscolatura, che l’avrebbero sostenuta e forse salvata, lei non le voleva. Solo a pensarci tornavano nausee e confusione.
S’appresentò come dottoressa Eugenia Forti, la neuropsichiatra.
Sembrava caduta dal cielo come un angelo per il peso, perché nonostante la faccia bella, ci stavano settantacinque chili di grasso ‘ncopp all’oss.
Era proprio chiatta e stonava con le figure celesti, diafane e lieggìe.
Preparata, era preparata assai e mannaggia agli studi, alla capa tost, a quella sicurezza che Mila non teneva, fu difficile rispondere alle domande di rito.
“Perchè stu smazziamiento? Togli il cibo e poi? Almeno l’hai risolto il problema?”
Sta figlia e n’drocchie l’aveva subito svelato il segreto suo.
“Tengo n’ata. Addio”
Davanti all’evidenza si sentiva scarpisàta perché nisciuno meritava la vita sua. Nisciuno la poteva trasformare in palummèlla, nu pizzico e femmen dopo averla tradita con Bastiana, che di chili ne pesava ottanta.
Bastiana la puttana, felice con mezzo chilo di tagliatelle al ragù, maialino arrosto e patate, vino e tiramisù, ci aveva rubato Lino suo che e chiatt nun l’aveva mai suppurtate.
Teneva a dieta Mila, il gentiluomo, e si scopava montagne di grasso e civetteria.
Inta a cap soa, Lino se lo sarebbe conquistato pesando quarantacinque chili da cinquantacinque, e mò era arrivata a quaranta, di conseguenza si sarebbe spicciàto a tornare.
Mila uscì dall’ospedale che ne pesava quarantasette. La reggevano il padre e il fratello con le lacrime agli occhi.
Eugenia Forti la dottoressa re cervell impazzut, la volle nello studio tre volte a settimana e là veramente ci vomitò l’inferno tra stampe di nièrvi, specializzazioni e trattati di neurochirurgia.
Nella stanzetta dove solo l’acquario coi pesci d’oro si collegava alla vita, ci stavano martiri e confidenze e gli occhi celesti della psicoterapeuta troppo chiari per accogliere bugie e sotterfugi.
I dottori sono come le scarpe, chiù so stritt e chiù te fann male e la Forti non dava scampo.
Una domanda e quarantacinque minuti di silenzio. Un disegno, un’ora per osservarlo e inserirlo nella cartellina denominata “aucellùzzo”, la sua.
Due anni per uscirne dal mal d’amore.
Cadute, risalite, fame, vomito, scorticate, cucù di mestruazioni, ricoveri, bugie e verità.
Na matina Mila si svegliò quieta.
Erano le cinque e c’era odore di caffè e sfogliatelle. Le aveva preparate la sorella e mò ci stava mettendo dentro la crema pasticciera.
Con una siringa iniettava il goloso carburante alle paste che avrebbero allietato tutta la famiglia, meno che Mila. La osservò con gli occhi spalancati come margherite in sboccio, quella mano sottile sporca di uova e farina, e per la prima volta non le si strinse lo stomaco, anzi si avvicinò, infilò l’indice nella zuppiera ricolma di crema e se lo mise in bocca.
Titina la guardava ‘mbarazzata. Ci tenne a dire che le paste erano per Adelia, la vicina che compiva ottantotto anni, e nessuno, tranne loro, l’avrebbe festeggiata.
Mila rise e per la prima volta non corse al bagno ma rimase sulla sedia a farsi raccontare la storia della donna che aveva perso due figli per malattia. Davanti a quella storia il cuore le si scorticò e capì quanto fosse stata fèss ad arrugnarse per chi nun meritava un grammo della carne sua, figuriamoci il cuore.
Questa volta il senso di nausea le arrivò prepotente per essersi fatta manipolare e convincere da quel porco di Lino.
Chi rire, fòtte chi chiàgne.
Una violenza diventa tale quando permetti agli altri di annientarti. Quando credi di amare il diavolo e diventi sua complice.
Era così agile e bella prima ra malatìa con il seno sodo, i fianchi da femmina, i capelli che le coprivano il sedere. Così bella.
Due anni sono lunghi ma ce l’avrebbe fatta a recuperare. A ritrovare la propria frenesia e una bellezza di cuore che non se n’era mai andata.
Avrebbe ringraziato chi si era preso la responsabilità di farla guarire.
La famiglia, gli amici e la dottoressa Eugenia del “devi voler vivere e ce la farai!”.
Afferrò la terza sfogliatella e la inzuppò nella tazza ricolma di caffè e latte e poi guardando Titina le urlò sorridendo: “Cazzo che buone!”
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