A Cataratta

“A Cataratta” di Adalgisa Giannella. In copertina un disegno di Mia Bandinu
Sai quando ti sfronzoleiano avanti all’uocchie macchiulelle e lummenarie tutt’assieme e la vita è un’altra, perché non sa di reale, ma scombinìo di forme e colori che poi non ci capisci più niente?
Accadeva a Rita specialmente la sera, come desiderasse vedere meglio falene o stelle e ci stavano solo lumere senza senso, cammere disordinate, misterìo di voci, anche se gli occhi li sgranava assai.
E che significa sgranare?
Allargare per vedere meglio, vedere ciò che va visto e non farfalle e grilli a estate conclusa, i sorrisi Durbans di mamma e papà seppelliti da vent’anni, i vestiti bui che in realtà le avevano venduto con fragole e fiordalisi.
Brutta cosa le cataratte scese come tende grige davanti agli occhi, proprio una scucciatura.
Rita rimarcava alle amiche che lei era centosettantacinquesima in coda per l’intervento e quanto tempo sarebbe passato? Un anno, massimo due e poi ci avrebbe visto il mondo coi cristallini nuovi.
Ci sarebbero stati i colori giusti, avrebbe riconosciuto le persone che la salutavano trattate spesso con malacrianza, avrebbe indossato il vestito di lana piuttosto che quello di cotone quando il freddo sconvolge le carni e arriva u male e cap che neanche e pillole ru miraculo fanno passare.
Vedere bene.
Tanti lo danno per scontato, lei no.
A settantanni almeno una volta nella vita, voleva vedere bene.
Quel mondo che aveva osservato dietro un tenda di voile, una ragnatela, un vetro opaco per altri assai chiaro, lei non lo vedeva esplicito da cinquant’anni.
Chissà se da
𝒎𝒊𝒐𝒑𝒆𝒑𝒓𝒆𝒔𝒃𝒊𝒕𝒆𝒂𝒔𝒕𝒊𝒈𝒎𝒂𝒕𝒊𝒄𝒂𝒊𝒑𝒆𝒓𝒎𝒆𝒕𝒓𝒐𝒑𝒆 si dovesse accontentare di non vederla bene una realtà.
Magari non le sarebbe neanche piaciuta.
Feroce, confusa, dietro a mode sconvenienti e assurde fatte di accessori turpi tipo cinte con teschi, jeans strappati fino all’inguine, cappelli con orecchie di lupo, umanità che si fotografava tutto il giorno perché i ritratti non si pavavano chiù come na vota.
Questo era tutt chell che sapeva dalle amiche non cegate o con la cataratta fatta prima di lei per canoscenza e buonasciorte.
La sua miopia prevedeva occhiali spessi e brutti che non indossava mai, così l’uocchi malati ci facevano apparire belli pure gli amori tristi e non necessari.
Alberto, Vincenzo, Lorenzo le sarebbero piaciuti dieci decimi su dieci?
Forse no… anzi, no sicuramente!
Povera Rita delusa, oscurata, maltrattata da amori non visti per una lettura del tutto sballata di sorrisi e smorfiaggini.
Non solo.
Nella vita sua ci stavano pure due figli sconosciuti, con facce spiritose e comportamenti di malaffare. La offendevano e non la chiamavano neanche mamma e purtroppo sulle anime ci vedeva chiaro: non l’amavano sti figli qua.
Le rendevano la vita difficile anche ora che li guardava con Ilde la vicina, attraverso i selfie di Feibuks senza occhiali. Sembravano angeli, nonostante anche per loro fossero arrivate rughe e scarnità, ci diceva Ilde.
Ai giardinetti incontrava Sciuè l’amico napoletano purosangue che la scherniva per il cappello di lana indossato ad agosto, l’ombrello nella borsa della spesa in una giornata in cui il sole – e se lo chiedeva anche il sole, affermava Sciuè – a cosa le sarebbe servito quell’attrezzo rosa infilato di fianco a baguette e cavolfori dato che in cielo non ci stava neanche una nuvola?
Rideva Sciuè e lei pensava che presto sarebbe stata una donna bionica.
Dopo l’operazione avrebbe visto ed escluso dalla vita tutti gli obbrobri, i falsi amici, le tele pittate da Lorenzo che a detta di Sciuè erano solo un impapucchiamento di colori e sarebbe stata alla larga da Benito che lei pensava fosse un volpino, ma che poi tentava di azzannarla perché in realtà era un rotwailer.
Gli occhiali li detestava.
Se li appiccicava al naso solo in casa, quando guardava la televisione e li toglieva all’improvviso quando in quella scatola ci schiaffavano delitti, guerre e nudità.
Davanti allo specchio si rimirava con l’accricco pagato seicento euro. Gli occhiali con la montatura nera acquistata assieme ai figli che d’accordo con l’oculista, avevano avuto il coraggio di affermare che quelle lenti ci davano massimo quarant’anni.
Invece i bifocali antiriflesso opachi la facevano assomigliare a na fattucchiara.
Con le cataratte scese, gli occhiali erano volati dentro la monnezza.
Li aveva guardati con un’alleria curiosa e ci aveva fatto pure un balletto attorno al bidone.
Nel bosco vicino casa sua Sciuè le aveva preso una canna di bambù che mò teneva per vedere meglio o liett, a caffettera, e seggiole del soggiorno, u mazz e chiav col pupazzotto giallo che le aveva regalato Peppina la sorella prima che l’infarto non la scetasse cchiù.
Ci pareva di stare dentro le stanze quando scoppiano gli incendi, solo che a puzz e bruciat non si sente e le fiamme non ci stanno, solo fumo denso.
Poi Luana capoinfermiera al Sanigalli e dirimpettaia sua, le aveva spiegato l’operazione pure se Rita non c’aveva capito granchè.
Aveva detto che la cataratta è na bella cosa, perché dopo l’intervento torni a vedere come una guagliuncella.
Un mistero, ma che ce ne fregava a lei della soluzione scientifica se finalmente il mondo si sarebbe fatto limpido come raccontava Cinzia la poeta che dopo l’intervento aveva scritto un racconto dal titolo “ Senza fantasmi”.
Lo aveva ascoltato con ardore attraverso lo smartofone che Sciuè le aveva regalato per il compleanno.
Sciuè che aveva accompagnato il pacchettiello con le camelie che Rita amava assaie perché venivano dal Giappone dove la nervosaggine non esiste.
Ce lo aveva spiegato lui il perché.
Là ci sta Kodama dio degli alberi che li calma tutti con il tè, mentre loro si pigliano u cafè che li rende pazzi e scriteriati.
Fu proprio dallo smartofone che arrivò l’appuntamento per l’intervento prima della data prevista.
Da centosettantacinquesima a sessantesima perché tanti erano morti e altri si erano ammalati e mò toccava a lei, Rita Pastorini.
Dopo due notti insonni, Rita non era più sicura di volerseli cagnà l’uocchi, s’appaurava.
E se non c’avesse visto più neanche l’ombre? Se l’operazione andava male e sarebbe rimasta cegata?
Con voce tremolante lo comunicò a Sciuè che l’avrebbe accompagnata in ospedale e quello non la finiva più di ridere come avesse parlato la scema che davanti al miracolo se ne scappa.
Poi ci si erano messi pure i figli sconsiderati a dire che c’aveva le cervella fritte.
Per finire Lucia, amica ru core, cieca dalla nascita, aveva attaccato col piagnisteo ca furtuna viene a chi non la merita.
Come na guarattella era corsa a casa e nella borsa di tela aveva infilato una vestaglietta, due pantofole sgarrupate, le mutandine pulite e u cuorn che mamma sua ci aveva regalato a un compleanno: rosso come il sangue ma che pareva na carota sfurmata. Ci aveva ficcato pure na lettera dove lasciava in caso di guai, le poche cose di casa sua alla Chiesa Celeste dove ascoltava messa e chiedeva grazie mai arrivate.
Dopo due giorni era in ospedale.
Sciuè l’aveva lasciata davanti alla camera operatoria dove si sentiva puzza di carne bruciata.
Prima di lei toccava a Giovanna Sempallera che chiagneva per la paura e Rita ce lo disse subito che si sentiva cummare con issa, che pure a lei ci veniva da vommicare tanto era lo spavento.
S’erano strette in un abbraccio e a tutte e due erano tornati coraggio e speranza.
Dopo due mesi Rita lo vedeva bene il mondo e non si era mai accorta di quanto fosse sporco e affollato. Pure casa sua non riconosceva più, pareva proprio abbandunata.
Ragnatele, macchie d’olio, schizzi di pomodoro, asciugamani e lenzuola che da bianchi erano diventati rosa ciclamino, quadri con due dita di polvere, la televisione con sopra lo schermo una cataratta gigante fatta di manate, alcool e moscerini deceduti.
Na schifezza.
Passò un mese per farle scintillare quelle stanze e quando Sciuè passò a prenderla per festeggiare con una pizza gli occhi nuovi, s’innamorò del pizzetto sale e pepe, del sorriso buono e questa volta in cuor suo sapeva che era quello giusto o forse lo sapeva pure da cegata… chissà.