Storia di una capinera e di un semaforo
Articolo e foto di Martino Ciano
Ho atteso senza invocare la lucidità. Un acquazzone e le pozzanghere sono amici cari con cui parlare. Dialoghi di pioggia e grandine di delusioni; mi scuotono gli schiamazzi dei bambini che escono da scuola. Corrono, riescono ancora a farlo, ma presto la tecnologia toglierà loro anche questo movimento veloce delle gambe. Saranno a prova di nubifragio, non rischieranno più né bronchite né raffreddore. Magari una nuova serie TV o un videogioco multiplayer li salverà tenendoli inchiodati sul divano.
C’è questa volontà di potenza che invade gli animi degli automobilisti; quando si fermano al rosso del semaforo fanno gridare i motori. Io posso camminare, peccato che abbia anche la possibilità di pensare. Nel mio paese si è abbattuta un’altra calamità naturale, la pioggia ha portato via il costone di una collinetta. La frana si è riversata in strada, la strada è stata chiusa, non ci sono state vittime perché pietre e fango sono venute giù quando nessuno passava di lì. Ecco posso raccontare tutto in maniera elementare, minimale.
Mentre la mia prosa prosegue e i miei pensieri si mischiano, seguo con attenzione le associazioni mentali tra ciò che vedo e ciò che mi sento, almeno non avrò perso tempo a lamentarmi. Anche questi esercizi spirituali rientrano nel mio vagabondaggio culturale, ossia trovare significati anche quando la situazione non lo richiede. Mi dovrei soffermare su questo aspetto, nulla è come appare, ma è noto sia a me sia agli altri, quindi inutile dirlo.
Un lavoro del genere lo faceva quella povera disgraziata protagonista di “Storia di una capinera” di Giovanni Verga. Sì, proprio lui, quel tizio che aveva fama di essere stato uno scrittore e che ancora oggi viene citato nelle aule scolastiche.
La ragazza, protagonista del romanzo, esce di testa per un uomo, ma non può averlo sia perché è promesso alla sorella, sia perché lei è stata costretta a farsi monaca. Leggendo il suo carteggio solitario, visto che lo intrattiene con con una a cui le sue lettere mai arriveranno, scopri che lei si lamenta della sventura che le è capitata. Dice pure che l’amore è peccato, ma lei se ne frega di finire all’inferno; lei ama più quell’uomo che Cristo. E lei passa le sue ore in una celletta, o su un Belvedere, a immaginare e a pensare, a struggersi finché la malattia non la prende e l’ammazza. Oh l’amore, che condanna, Dio neanche sa dissiparlo. Ma forse Dio è meno serio di noi, più propenso al poliamore che al rigore, alla castità o alla monogamia.
Insomma, la capinera è una bella tipa, a volte nichilista, altre volte pregna di felicità per il dolore che patisce. Mi sembra Santa Teresa d’Avila. Intanto, continuo a camminare, a levitare tra i pensieri. Mi sembra che la pioggia si sia calmata, che il sole sia di nuovo visibile, che addirittura faccia caldo. E mentre metto un piede davanti all’altro, sincronizzando gambe e idee, mi rendo conto che s’amano per sempre le storie che si leggono, mentre si interpreta l’esistenza quel tanto che si può.