Il sogno di Iris

Il sogno di Iris

“Il sogno di Iris” è un racconto di Stefania De Mitri. Foto di Martino Ciano

La pelle diafana, talmente chiara che potevi distinguere il percorso delle vene come i fiumi sulla carta geografica. Gli occhi celesti, gocce d’acqua contro il cielo. Le labbra esangui, rosa pallido. Esile come un fuso, piccolina. Un sorriso illuminava i lineamenti del volto.

Generosa, pulita come l’aria di montagna. Se avessi potuto assaggiarla avresti sentito il gusto dei fiordalisi. Si chiamava Iris. Aveva trent’anni e da tempo faceva volontariato in ospedale, aggirandosi fra le corsie e i letti dei malati. In quell’ambiente riusciva a percepire il fruscio degli angeli.

Prendendo su di sé la sofferenza della gente aveva imparato a sentire il respiro delle cose, però avrebbe voluto essere capace di non sentire il male delle persone, il rumore del dolore, l’angoscia dell’infermità.

Dolcemente cercava di lasciarsi andare al pensiero di diventare un angelo, per assistere i malati assicurandosi protezione dalle emozioni. Non era sposata. La sua aria eterea produceva un effetto straniante sugli uomini. Pur essendo attraente, stando vicino a lei nessuno riusciva a superare la sensazione di avere accanto un’essenza.

Aveva avuto alcuni fidanzati che in breve l’avevano abbandonata volgendo le loro attenzioni verso compagne dotate di maggiore fisicità. Non che le importasse molto, stava bene da sola. Aveva perso i genitori da giovanissima. Era abituata al dialogo interiore.

Per dedicarsi completamente alle persone malate aveva iniziato a frequentare un corso da infermiera. Sperava di diplomarsi velocemente. Essere in grado di addormentare il dolore, produrre un anestetico. Per questo desiderava diventare un angelo. Tutti i suoi malati già la chiamavano così.

Il sogno di Iris è una preghiera

Ogni sera, nel chiuso della sua stanza da letto, pregava: ”Angeli di Dio che siete i miei custodi, illuminatemi e proteggetemi. Pregate il Signore affinché mi accolga nelle vostre schiere. Amen.”

Il sapore del cioccolato, il gusto frizzante delle bollicine di champagne, lo sfrigolio di una salsiccia di maiale appena arrostita. Nulla di ciò le interessava. Sarebbe vissuta bene anche a pane e acqua.

Magari avesse potuto smettere di mangiare. In effetti si nutriva pochissimo, quanto bastava per avere la forza di assistere i suoi malati. Aveva pochi amici, non le piacevano le discoteche, i pub, le birre. Non le piaceva uscire a fare shopping con le amiche, colorarsi i capelli, chattare on line.

Voleva aiutare i bisognosi, sollevarli da terra. Apprendere la leggerezza del volo, farsi spuntare le ali. Il suo sogno ricorrente era di svegliarsi una mattina e di avere le ali. Portava amore e sollievo ma non era vaccinata dai sentimenti, dalla paura, dal dolore. Voleva l’immunità.

La giornata era stata pesante, una malata terminale era andata via stringendole la mano. Aveva sentito uno strappo dentro di sé nel momento del trapasso, un risucchio di energia.

La sera aveva i piedi gonfi per le tante ore passate in piedi a vegliare, la testa confusa, le ginocchia che si piegavano. Arrivata a casa andò difilata a letto, addormentandosi tutta vestita. La notte fece ancora quel sogno, col passare delle ore sentiva aumentare il senso di leggerezza.

La mattina dopo il sole filtrava attraverso le imposte. Si stropicciò gli occhi, allungò le braccia per sgranchirsi e si trovò sospesa nella stanza. Riuscì a spalancare la finestra sollevandosi in volo. Finalmente.

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