Ai nostri ricordi “umani”. A te che volevi esserci

Articolo e foto di Martino Ciano
Avevi iniziato ad avvertire quando la debolezza stava venendo a prenderti; come un colpo di fulmine si impossessava dello stomaco e delle gambe, rendendo la tua testa leggera. Ti sentivi sollevata da terra come la sposa presa in braccio dal suo sposo sulla soglia di casa: poi lui la distende sul letto e ne accarezza il volto, e le scosta i capelli che le coprono gli occhi, e le sorride, e la bacia, ed entrambi vorrebbero che la notte mai finisse, che la vita sia sempre così rovente, eccitante, una eterna prima volta…
… la tua notte cominciò invece con la lettura di un referto che ti raccontava di una cellula impazzita in qualche punto del cervello, fecondata da una famelica vivacità che ne ha generate altre. E tutte sono cresciute velocemente, spinte dalla volontà di conquistare il proprio spazio vitale. E queste piccole pazze hanno riconosciuto subito la loro mamma, come gli uccellini, e a lei si sono legate per sempre, nella buona e nella cattiva sorte. Il loro obiettivo diventò uno: banchettare con ciò che è sano, divorare finché è possibile, infischiandosene del fatto che periranno anche loro, togliendo il fiato a chicchessia, persino alla loro mamma.
E così hai scoperto che la debolezza, i dolori dei muscoli, e le articolazioni in fiamme, e la rigidità del corpo, erano provocati da quella “famiglia invadente” che proliferava in te silenziosamente, che aveva occupato senza permesso quel cervello che ci rende ciò che siamo, attraverso cui ci stimoliamo, tramite il quale noi riconduciamo ogni cosa alla nostra anima… e per dovere di non so quale coscienza, per amore della tua riservatezza, sei sparita, nascondendo il tuo corpo a noi: “all’amore non si comanda, così come alla morte”.
Ti sei rinchiusa nel tuo lazzeretto, non per viltà ma per contemplarti in armonia, per riappacificarti con il dolore, per dialogare con l’Oltre.
Non c’è motivo che io sveli il tuo nome in questo giorno che si perderà tra gli altri, che sarà uno dei tanti che ho vissuto. Tu non ci sei più, sei andata via senza avvertire. Ti sei lasciata accompagnare, perché morire non fa paura, soffrire invece “sì”. Lasciare il mondo non è così terribile, crudele è invece avvertire il lento strappo dell’anima, il costante crepitare delle ossa che non reggono più la carne, il rantolo che sostituisce il respiro, il flusso del sangue che si affievolisce, sperare che il miracolo avvenga mentre il dolore strozza la voce, invocare la fine proprio quando si scopre che la vita intorno continuerà anche senza ciascuno di noi.
Il trapasso si è compiuto,
il trapasso è chiudere gli occhi e non riaprirli più,
il trapasso è addormentarsi come se fosse la prima volta…
Dove sia stato il tuo risveglio, quale alba tu abbia visto, quale mondo tu stia scoprendo adesso, mentre io scrivo laddove ci riposavamo al termine delle nostre passeggiate, io non me lo chiedo, perché saprei immaginarti solo tra cose umane, e continuerei a usare parole umane, e ti farei pronunciare pensieri umani; invece, sei “oltre”, non più umana, non più di questo mondo, non più incatenata a queste sciocchezze terrene.
Ti affido all’Oltre, anzi al Tutto, amica mia.
Conservo anche per te i nostri ricordi da “umani”.