Restare o andare? Il dilemma di un calabrese nel romanzo “Alright Compa’” di Rino Garro
Pubblichiamo un estratto del romanzo “Alright, compa’” di Rino Garro, pubblicato da Rubbettino nel 2021. Si tratta un brano delicato che fa intravedere l’ansia e le preoccupazioni dei non più giovani laureati riguardo alle loro aspettative lavorative. Solo un flash, che contiene il fragile mondo di quanti si chiedono se non sia il caso – come purtroppo accade sempre di più – di lasciare il proprio paese, il nostro, in cerca di soddisfazioni professionali, di futuro. Se sia il caso, per l’appunto, di restare o andare.
Guardo le auto sulla A6 transitare in un senso e nell’altro. Sopra di noi, sempre questo grigio appiccicoso spalmato con grazia e dedizione, ma chi se ne importa ormai. Solo in certe occasioni mi riassale il nervosismo, e non certo per il colore del cielo. Per un minuto o due scruto il nero attorcigliato di una nuvola. Sto bene oggi, leggero come una piuma. Sorrido. Il punto è che prima o poi una decisione dovrò prenderla per forza.
I miei vogliono sapere come mai quella che doveva essere una vacanza di pochi giorni si è trasformata in un lungo soggiorno. Antonella, ritornata dalle ferie a Firenze, dove fa un caldo da squagliarti la lingua, dice che per il mezzo c’è di sicuro qualche donna tigresca. Patrizia e Maria, e tutti i colleghi precari con cui ho parlato, vegliano su letti di spine poiché si pensa che da un giorno all’altro sarà pubblicato il nuovo concorso per la scuola, atteso da tempo, improbabile salvatore delle nostre piccole vite sospese. Da qui, l’ansia che in Italia ti bracca come un cane da caccia, non la capisco più. Da qui l’Italia non fa paura: sembra tutto lontano, ogni cosa possibile.
Chiudo la tenda, mi ributto a letto. Infilo la testa sotto il cuscino. Tracce del suo odore, della sua pelle; del profumo che le ho regalato. Adesso lei è in bagno, a farsi la doccia. Io e Julie ci vediamo e facciamo l’amore, qui nel suo flat, da tre settimane. Questo scialbo trivani, con la moquette perfino in bagno, è di una essenzialità per così dire utilitaristica. A parte la televisione, il divano e un tavolinetto con due sedie, non vi sono altri mobili, così almeno non si corre il rischio di mettere in disordine.
Il frigo c’è, ma non ho capito cosa abbia tenuto in fresco l’ultima volta, e non mi riesce di capire cosa mangi lei, oltre a tè, cornflakes, patatine al gusto d’aceto e birra calda in lattina o, quando viene al ristorante, parti di pizza filanti e spaghetti che risucchia uno alla volta, per poi lasciarne mezzi. Ma Julie riesce a fare confusione lo stesso. Nella camera da letto, i suoi trucchi sono sparsi dappertutto insieme a penne, post-it, occhiali da sole, monetine, borse, e a volte dai cassetti saltano fuori oggetti impensabili.
Crede che la moquette sia autorigenerante o abbia intrinseche capacità igieniche e per questo vi poggia sopra qualsiasi cosa, le maglie appena lavate o la biancheria intima, che magari ripiega con molta cura per poi riporla ancora sulla moquette, quasi fosse un cassetto, proprio nel punto dove prima eravamo passati e ripassati con le scarpe. All’inizio ho provato a dirle qualcosa, ho anche fatto finta di prendere l’aspirapolvere per farle capire non so cosa. Poi ho lasciato perdere. Ho desistito ai suoi lunghi sguardi vuoti, ai suoi occhi fissi oltre i miei. Alle pareti neanche un quadro o un poster, perché, chi lo sa, potrebbero
infrangersi in mille pezzi in caso di terremoto, e sulla finestra o sul comodino nemmeno una fotografia qualsiasi accanto al telefono. Per fortuna Julie non ha animali, forse non le piacciono, ma non oso chiederglielo, casomai le venisse voglia di comprarne uno, magari un’iguana o un boa constrictor. E per fortuna non fuma, che è un gran qualità, ma mai quanto la sua tristezza, quanto il colore indefinibile dei suoi occhi.