Posologie d’amore
Articolo di Giuseppe Milite
Ah l’amore, l’amore! Ma non è d’amore tra Giuliette e Romei, Giuliette e Giuliette o Romei e Romei di cui voglio parlare, ma d’amore, d’affetto tra transumani; in quanto del tutto smarrito tra smarriti in crisi generale. Del dolore che provo voglio parlare per l’evidenza del così penetrato orrore in amore nei rapporti interumani. Della sua quasi totale aberrazione.
Così che, platonicamente, non sia più follia, enigma, istinto ma calcolata ragione con relativa somministrazione a posologie controllate. Ovvero, che ne siano ammissibili solo forme modellate caso per caso. Troppo presi, tutti o quasi, dal diritto; di più, dal sentito dovere di scalare le vette, troppo spesso, umanamente misere e scadenti di questa società. Arrivare in alto il più possibile per ritrovarsi ad ammirare non altro che il vuoto. O che, a invertire il punto di vista, non altro che il pieno di inutili futilità. Così che il prevalere inarrestabile di un individualismo truculento e a tratti feroce, risulti teso alla sola salvezza in terra.
Nessun Dio, nessun cielo sopra; ché non c’è il tempo per guardarlo! E un Dio tirato in ballo e che risorge a piacere solo quando è il caso. Insomma, quando ritenuto necessario. Magari una malattia, un grosso guaio. E allora sì che si implora pietà. Che si prega umilmente e perché costretti a scoprire l’umana precarietà. Al contrario, quando si sta bene, vige non altro che un competere frenetico, senza regole. Come immersi in un regno, apparentemente formidabile ma posticcio, di una presunta immortalità. In una gara di valori inconsistenti e dove solo l’arbitraggio è chiaro e inconfutabile: il Denaro. È scontato ritenere, allora, come logica conseguenza, non ci sia più il tempo per dare troppo spazio, nessun limite al sentimento.
È per questo, allora, che penso che l’amore, quello vero e sincero, sia defunto o, forse chissà, estinto. Potrei arrivare a dire, senza temere di esagerare, che una volta escluse le parentele in linea retta, nonni, figli, nipoti che, al momento, ho ancora l’impressione reggano, per il resto, nei fatti, già che una volta, in comune, meno o niente sangue, cioè collaterali e affini, comincino a presentarsi le prime crepe; talvolta insanabili, profonde. Le frane vere e proprie, poi, nei rapporti amicali. Col prossimo in generale, sia esso vicino che lontano. Si veda, a tal proposito, il regnare florido di grandi schiere di avvocati. Per non parlare dei dispetti, tanti. E perché no le liti furibonde famigliari. Penso, per tutto questo nel complesso, non si possa parlare più d’amore. Non almeno, dell’incondizionato amore. Della sua intrinseca assenza di confini. Fine, quindi, solo a se stesso e a null’altro. Cioè privo di secondo fine, nella sostanza, in assoluto. Quel dare gratuito in cui non sia previsto, nemmeno, l’accettabile egoismo dell’amare per essere amati. Ormai, è così permeata in noi questa certezza, ovvero l’impossibilità dell’esistenza dell’amore, il puro affetto, che pur quando è pura la dichiarazione o la dimostrazione nei fatti, noi non ci crediamo. Riteniamo che non sia possibile. È un inalienabile principio, ormai.
È così assodato dal non trovare più ragioni per derogare. E se qualche volta, può capitare, il dubbio un po’ ci assale, ci diciamo che non è possibile che ci sbagliamo. Che l’esistenza del puro amore non è in alcun modo da considerare. E che il farlo, soprattutto, ci costringerebbe a domandarci con chiarezza a cosa mai siamo ridotti. O meglio: quali mostri, insensibili, siamo stati capaci di diventare.