I paradossi del “culturalismo” calabrese

Articolo di Antonio Pagliuso

Viviamo nella regione – la Calabria – con il più basso indice di lettura d’Europa, con le province – Catanzaro, Cosenza, Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia – mestamente abbonate agli ultimi posti nelle graduatorie de “Il Sole 24 Ore” per quel che riguarda l’offerta culturale – da prendere comunque, nonostante il prestigio della testata, cum grano salis – e con centinaia di comuni – dalla A di Acquaformosa alla Z di Zungri – che entro i confini municipali non ospitano librerie e biblioteche o in cui spesso, quando ci sono, le biblioteche non sono fruibili come dovrebbe un siffatto presidio culturale essenziale, ostaggio delle amministrazioni comunali, della burocrazia, di un “piccolo cavillo” che a certe latitudini si rivela insuperabile quanto il Nanga Parbat, la montagna mangiauomini.

Però, sempre in questa stessa regione assai singolare e plurale, nei medesimi comuni e province, le presentazioni dei libri, i festival e le iniziative culturali in genere – moltiplicate susseguentemente a quella cosa che passerà alla storia come la pandemia del 2020- boh! – sono tutti e sempre, secondo le note stampa puntualmente diffuse da tutti noi organizzatori, “un successo”.

Un immancabile e reboante successo che ha il suono stonato del paradosso. Qualcosa non torna. Forse bisognerebbe interrogarsi sul significato relativo della parola “successo”? Oppure, più banalmente, c’è qualcuno che racconta panzane?

In tutto questo confuso scenario di impostura e/o calabra diffidenza – ma anche di sconcertante aridità linguistica di uffici stampa e giornalisti – resta un sogno: organizzare un evento disertato dal pubblico, con tutte le sedie riservate agli astanti vuote; dopodiché inviare l’usuale comunicato stampa col titolo “Drammatico flop per eccetera, eccetera…”

Sarebbe un successo!

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