Pacchetto Colombo. Alessandro De Virgilio e l’illusione da “mille miliardi”
Foto di copertina e articolo di Antonio Pagliuso
Fino alla legge 281 del 16 maggio 1970 le regioni erano un ente territoriale nominato soltanto a fini statistici o in contesti geografici, senza un governo proprio, seppur questa forma fosse già contemplata dalla promulgazione della Costituzione della Repubblica.
Da quella fine degli anni quaranta, di fatti, il disegno dell’Italia divisa per regioni era già stato imbastito alla larga. Bisognava soltanto dirimere alcuni dubbi – sciocchezzuole – circa la divisione o l’aggregazione in un’unica entità dell’Emilia e della Romagna, della Puglia e del Salento, e definire i capoluoghi; una scelta, quest’ultima, con pochissimi dubbi e non in regioni “determinanti” per le sorti del Paese: Pescara o L’Aquila per quel che riguardava gli Abruzzi, Reggio Calabria o Catanzaro per quel che concerneva la Calabria.
Nell’estremo Sud della Penisola, qualche protesta era già scoppiata all’inizio del 1950 quando un comitato della commissione Affari istituzionali della Camera dei Deputati aveva indicato Catanzaro come migliore capoluogo per la Calabria, ma si era placata presto con il rinvio a data da destinarsi dell’istituzione delle regioni.
Termine che scadde due decenni dopo, precisamente nel 1970, quando nell’ambito del riordino delle regioni fu confermata l’indicazione di Catanzaro come città capoluogo della Calabria. A scapito di Reggio Calabria.
Nella città sullo Stretto scoppiò un putiferio: la popolazione civile, aizzata da Pietro Battaglia, sindaco democristiano di Reggio Calabria, in quello che passò alla storia come il Rapporto alla Città, interpretò la decisione come un affronto. I reggini si sentirono abusati, derubati di un diritto “divino”. Ma come? Reggio Calabria, la città più popolosa dell’intera regione, quella col “chilometro più bello d’Italia”, la città più antica, abitata dal 3.000 a.C, la Rhegion dalle regali origini magnogreche veniva superata da una Catanzaro qualunque?
Ne scaturì una sommossa drammatica – la pagina più tragica delle sfide campanilistiche tra le Tre Calabrie (Calabria Citra/Cosenza, Ulteriore prima/Reggio e Ulteriore seconda/Catanzaro) – che lasciò sul selciato cinque vite e fece registrare l’intervento eccezionale dei carri armati per le strade della città.
I cosiddetti Moti di Reggio proseguirono per otto mesi – durante i quali la Calabria e le sue “questioni” conquistarono la ribalta delle cronache nazionali – fin quando da Palazzo Chigi, sede del governo italiano, non giunse notizia che il presidente del Consiglio dei Ministri Emilio Colombo – in carica proprio da quell’estate in cui era scoppiata la rivolta – avrebbe presto dato il via a una serie di iniziative destinate a portare la pace in città e nella regione – seppur il Premier si affrettò a precisare che non si trattava di “affannose rincorse dietro la pressione di rivolte di piazza” – e, soprattutto, a fare decollare l’economia calabrese.
È il Pacchetto Colombo, il progetto, il sogno, l’utopia, la truffa che dà il titolo al nuovo saggio di Alessandro De Virgilio edito da Rubbettino (148 pp., 2022).
Tra le pagine del volume, De Virgilio, giornalista professionista e responsabile dell’Agi (Agenzia giornalistica Italia) della Calabria, ripercorre le tappe di quella epocale illusione che ha condizionato il futuro di intere generazioni di calabresi, in specie quello di quei giovani degli anni settanta che per un intero decennio hanno sperato nella vagheggiata industrializzazione della regione che avrebbe potuto bloccare l’emorragia dell’emigrazione.
Dal quinto centro siderurgico di Gioia Tauro alla Liquichimica Biosintesi di Saline Joniche, passando per le industrie tessili del Cosentino e il polo chimico della Sir a Lamezia Terme: una collezione di buoni propositi puntualmente abortiti che hanno lasciato una voragine nelle casse pubbliche – oltre mille i miliardi in dote del “Pacchetto”, tra virgolette – e macerie morali e sfregi esteriori nella regione – l’impatto ambientale di tali incompiute fu devastante: basti pensare all’esproprio di cinquecento ettari di terreno nella Piana di Gioia e allo sradicamento di settecentomila alberi di agrumi e olive per la costruzione dell’irrealizzato polo siderurgico.
Nel deserto dei Tartari della Calabria si rimase nell’attesa di uno sviluppo che, come i “temutissimi” tartari del romanzo di Dino Buzzati, non arriverà mai. Un’attesa durata per tutta la decade dei settanta con alcune nostalgiche, episodiche e illusive riprese nei due decenni seguenti.
Il piano di industrializzazione raccontato con dovizia di particolari da Alessandro De Virgilio in Pacchetto Colombo si trasformò, come ebbe a scrivere Amedeo Lanucara sulle colonne del “Sole 24 Ore”, in “un’opera più letteraria che economica, una specie di miracoloso equilibrio tra realtà e finzione, tipico del teatro pirandelliano”.
Ma la maschera non è stata smessa e oggi, a cinquant’anni dai fatti, possiamo scorgere bene i tratti – “Ecco il collo, ecco la testa!” – di una farsa orchestrata dallo Stato che, attraverso i suoi tantissimi istituti di credito industriale, distribuiva valanghe di denaro senza curarsi degli effetti che questa magnanimità alla carlona poteva avere sui bilanci.
Il Pacchetto delle illusioni si rivelò uno strumento arrugginito che non riuscì a trascinare la Calabria “fuori dalle secche dell’arretratezza economica”. Un flop da mille miliardi, non un preciso piano volto a fare decollare l’economia della Calabria e del Meridione, ma un elenco di interventi scritto alla meno peggio, in taluni casi senza neppure una precisa localizzazione dei progetti, aggiunta e modificata di volta in volta. Un esempio lampante di contraddizione all’italiana, una industrializzazione impossibile che presentò agli occhi del Paese, ancora una volta, la povera Calabria arresa, come scrisse Giustino Fortunato, al suo ruolo di irrecuperabile “sfasciume pendulo sul mare”.
*Pacchetto Colombo, Alessandro De Virgilio, Rubbettino, 2022