Negli occhi di un altro

Negli occhi di un altro

Racconto di Rocco Giudice. Foto di Martino Ciano

A volte, sembra che le cose vadano per il verso giusto, nel senso da te lungamente atteso e ostinatamente sperato, i fatti ti danno ragione, le idee che danno lustro all’ingegno risplendono su di te come un firmamento, la fortuna ti ricopre d’onori, anche le foto scattate senza rullino ti riuscirebbero – e bene. Invece, una foto così l’hanno scattata a te.

Davanti alla porta a bussola di un negozio di tappeti, uomini con vistosi ascot su austere camicie in popeline e occhiaie aristocratiche sembravano accorgersi con fastidio della contemporaneità, chiassosa e invadente. La pesantezza dei tessuti e la sontuosità delle scene che vi si dispiegavano si diffondevano nella strada come una sensazione di antico e di calore che sfidava il grigiore dell’aria.

Gravando con quella corposità peculiare che rimandava a cose più familiari, costringevano a immergersi in atmosfere da cui era decantata ogni lontananza. D’improvviso, ogni divagazione dei sensi diventava un’avventura della mente, in cui non si distinguevano i più intimi e perciò, sfuggenti segreti da quelle che erano reazioni meccaniche, emozioni superficiali. Immersi nella fatalità di enigmi nascosti nei sogni da essi medesimi suscitati, i tappeti avvolgevano come una seconda pelle, sostrato limbico di una consapevolezza che nel suo raggio, nella sua afosa aura riverberava il livore, tante volte sfiorato, di reazioni banali e sgradevoli mescolate al vago senso di noia che un’epoca disincantata elegge a sigillo delle virtù cui ha rinunciato o che ha rinnegato.

Tutti particolari che valevano, se non per la realtà che esprimevano, per i sogni che suggerivano. La rosa di Khiva fiorita sui tappeti di Nain nessuno la coglierà – ma sentirne il profumo! E non essendo un tappeto volante, era chiaro perché tacesse l’usignolo che vi aveva trovato fissa dimora, le ali ripiegate, per cantare solo a sera – sennonché, in quel cielo serico il giorno era immobile, come le stelle fisse che vi levitavano incancellabilmente.

Visto da quella specola, il mondo non ci faceva una bella figura. E lui?

Dietro la vetrina d’un negozio d’abbigliamento, una commessa in non più verde età era alle prese con l’addobbo d’una scena di manichini più felici di lei, tranne quello che stava cambiando d’abito, che pareva imitarne l’espressione seriosa e inerte. Specchiandosi sulla superficie tersa della vetrina, si vide come fosse fatto di ciottoli dai riflessi celesti in un giorno in cui nel cielo si scialbi un sole meno sfavillante di quello che glorificava quel mattino. Riuscì a non dispiacersi troppo di se stesso, del suo aspetto. Indossava una camicia stampata a fiori, vintage solo perché non se ne era mai disfatto, su una giacchetta di cotone con le maniche sdrucite e aveva la sensazione, confrontandosi con i manichini, che ci fossero smagliature, in lui, che, a poco a poco, allentavano i contorni della sua figura.

Più s’avvicinava alla vetrina per esaminarsi, più questa schiariva e lui incupiva fino a diventare una sagoma confusa, assorbita dallo sfondo: se si allontanava di qualche passo, invece, ecco che la sagoma sfocava e sbiadiva. Qual era la giusta distanza da se stessi? Essa era la misura umana, senza di cui appariamo mostri ai nostri stessi occhi? Ci si doveva fidare dello spazio, del vuoto o l’aberrazione era tutta dello sguardo? La luce stessa, infatti, era forse una cosa di qualità diversa dalle altre e insieme, una qualità particolare delle cose? Sono i corpi che la ricevono a renderla visibile. Un mondo, un universo di lampeggianti concrezioni luminose. Il resto è pesante e oscuro.

Era questo che reclamizzavano i manichini, non l’eleganza nel rincorrersi delle mode e degli sconti in offerta, ma quell’inanimata beatitudine che aveva qualcosa della statuaria più antica e remota, dei Bodhisattva e Avalokitesvara, dei loro sorrisi inespressivi, immoti, vacui, d’una saggezza da nulla che rimproverava la stoltezza di tutto e il cui sperpero poteva abbagliare persino dal riflesso d’una vetrina. Allora, guardò la commessa: tutta presa, pareva, dal proprio lavoro, l’aria sostenuta e sgarbata. Non sembrava capire. Alla fine, deluso, era dovuto andare via.

Che avrà visto lei? E il manichino, che sembrava replicarne o aveva assunto in delega l’espressione, come esito di una consuetudine fra lei, che lo vestiva e svestiva come un bambino e lui che la lasciava fare, come fidandosi di quella persona? Lei lo aveva ignorato: il manichino era sembrato lo fissasse. Due cose inaccettabili.

Allora, tornò indietro. La commessa aveva appena finito di vestire l’ignudo: il manichino pareva indispettito dal ritrovarsi di fronte quell’individuo esecrabile. Lui gli fece smorfie. Lei, la linguaccia. Lui gestacci: lei gli voltò le spalle. Pochi attimi dopo, uscirono il titolare e altri due – colleghi della commessa, presumibilmente. Lo inseguirono: lui scivolò: lo raggiunsero e picchiarono selvaggiamente, finché, sazi e stanchi, lo lasciarono a torcersi per terra. Nessuno, nell’era post-pandemica, ritenne di soccorrerlo: bella eredità storica di tutti quegli “andrà tutto bene” a passo di ballo e a bacchetta.

Si trascinò e fatti pochi passi, toh – un’altra vetrina. Un bar pasticceria: o una specie di posto di ristoro o di bistrot per cani. Si avvicinò per specchiarsi: uno spettacolo, visto da vicino – erano proprio gli occhi di un altro. Del manichino.

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