Miriam o della purezza ritrovata

“Miriam o della purezza ritrovata” è un racconto di Caterina Torchio. La foto in copertina è dell’autrice
Quel giorno il sole tradiva il cielo, infilandosi tra nuvole che non volevano esserci. L’aria, nella limpidezza di un tempo d’estate, rendeva visibili anche le più piccole cose. Neppure un granello di polvere sarebbe rimasto invisibile agli occhi: tutto aveva la sua dignità e la sua consistenza e la vita si dispiegava in una varietà di situazioni senza ordini e regole.
Non era necessario esser grandi per occupare uno spazio, in quel giorno tutto aveva la grandezza della vita che era altra cosa dall’esistenza. La consistenza delle cose veniva rapita dagli occhi attraverso emozioni diverse. Miriam sentiva che qualcosa stesse per succedere, che dopo aver raggiunto il fondo lo slancio per la risalita sarebbe stato forte e deciso. Era un gioco misterioso in cui a vincere o a perdere non sarebbe stato il cuore.
E poi la vita stava imparando a dipanarsi in un grosso arcobaleno in cui la volta era più grande di ogni luogo e per questo Miriam perdonò il sole che esitava ad uscire dalle nuvole, come un armigero che teme di uscire dalla trincea per non restare ferito. Aveva solo vent’anni e se avesse potuto, avrebbe scelto di morire in quell’istante per dare alla vita un vero senso, un pregiato retrogusto amaro ma pericoloso come quello di un buon vino che bevuto troppo rischia di ubriacare.
Poggiò il libro che stava leggendo sul tavolo, che attendeva di essere sparecchiato dopo cena e decise di affidare quell’emozione al calore di una doccia che l’avrebbe canalizzata verso il progetto che non sapeva elaborare. L’acqua lavò la mente insieme al corpo e scivolò tra la seta di una camicia bianca senza null’altro sotto.
Era scalza e ancora accaldata dal vapore che le aveva arrossato il viso e ritornò a pensare a come avrebbe potuto disegnare il tempo senza più sprecarne il corso. Ripensò all’amore che ormai non conosceva più e che il profumo sul cuscino del divano raccontava senza consolazione. Un’emozione, mai provata prima, la spinse lontano e compose il numero che conosceva a memoria, che sfuggiva alle dita meccanicamente, ma che poi interruppe per passare a scrivere un messaggio.
Invitava Luca a raggiungerla. Subito. Si era abituata ai suoi tradimenti e questo era grave. Si era assuefatta a un tipo di rapporto che non era mai esistito e allora decise di farsi violenza più di quanto non gliene stesse facendo lui. Si riprese quell’amore solo suo per farlo morire dentro e, senza riflettere, inoltrò il messaggio che avrebbe spezzato quella storia.
In fondo Luca non la conosceva per davvero e, quella sera, ne diede prova. Citofonò senza rispondere, come al solito, ed entrò con la sua solita espressione disgustosamente boriosa. Miriam detestava i suoi occhi azzurri e il bacio che le sferrava sul volto, entrando, più aggressivo di uno schiaffo. Si diresse verso il divano sedendosi, come al solito, dove i cuscini facevano angolo come se, poggiandosi, cercasse qualcosa con cui attutire il colpo che stava per ricevere. Sorrise, chiedendole cosa significasse quello sguardo triste. Un muro si sollevo da solo tra sguardi che ormai non sapevano comunicare e il gelo riempì l’aria.
Miriam rispose che era finita, che quella fine avrebbe significato l’inizio della sua vita. Luca non manifestò alcuna reazione, convinto che fosse una delle sue solite reazioni. Pensò che Miriam stesse esagerando come sempre e che l’avrebbe richiamato di lì a poco. E la seguì con lo sguardo mentre si dirigeva alla porta, invitandolo ad andare via. Prima di uscire tentò di avvolgerla con un braccio, sollevandole la camicia sui fianchi e provò a baciarla, avanzando nuovamente verso il divano, ma la rigidità della sua reazione lo spinse a staccarsi. Abbassò lo sguardo e senza voltarsi andò via.
Quella sera fu la più bella della vita di Miriam: aveva estirpato il cancro che le aveva invaso l’anima. Prese un calice e la bottiglia di prosecco che teneva in frigo, si sedette, sola, sul divano in sala e brindò alla purezza recuperata, al coraggio di essere se stessa e a sé. Il far del giorno la trovò ancora così: accovacciata sul cuscinone del sofà e con i capelli scompigliati dalla posizione. Non aveva riposato come avrebbe dovuto ma stava bene.
Accolse il tremolio timido dei primi raggi che ferivano, incerti, le finestre e il profumo dell’alba. Era un’alba nuova, diversa nei colori e nella luce che saliva dal mare, lottando timidamente contro le ultime forze della notte ancora resistenti per quanto deboli. L’acqua sul viso sembrò cancellarle insieme alla stanchezza la ruga scavata sotto l’occhio destro. Sembrava un’anomala cicatrice inferta della vita.
Uscì sul terrazzo e l’aria frizzate di novembre le aggredì le narici che si sfogarono in starnuti ripetuti. Era presto per uscire, tuttavia infilò velocemente i leggings grigi mentre con lo sguardo scrutava la mensola dell’armadio che conteneva le felpe piegate. La sveglia suonò obbediente all’orario fissato la sera prima e nello spegnarla spinse sulla testa una blusa blu. Sarebbe scesa sulla spiaggia per correre lungo la riva, ma doveva prendere un caffè perché la giornata iniziasse davvero. E la moka sul fuoco, poggiata meccanicamente profumò l’aria caricandola di energia.
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