Memorie di una Janara di Emanuela Sica

Recensione di Domenico Frontera. In copertina: “Memorie di una Janara” di Emanuela Sica, Delta 3 edizioni
“La storia della sua infelicità
le sonnecchiava negli occhi
e se nessuno sapeva leggerla
era perché il sorriso richiamava
le lacrime sul davanzale delle ciglia
un attimo prima di esondare.
Era coraggiosa finanche nei respiri.
Li centellinava con parsimonia
mentre nel centro della tempesta
teneva al riparo le margherite
per non arrendersi all’inverno.”
Poesia di Emanuela Sica tratta da “Memorie di una Janara”
Mentre nel 1600, in Olanda, Spinoza affermava che la parola di Dio è stata scritta dagli uomini e combatteva la superstizione, sentendola materializzarsi nella lama di uno stiletto che lambì, fortunosamente, solo il suo mantello, l’Europa continuava ad “appiccare streghe”; un vero e proprio olocausto nel nome della “Parola del dio della Bibbia” e di un libello, il “Malleus maleficarum”, scritto verso la fine del 1400 da due frati domenicani.
In Italia eravamo in pieno Rinascimento, ma si sa chi va contro il potere costituito è sempre un eretico da far tacere ad ogni costo, soprattutto in un sistema clericale e patriarcale e soprattutto se in quel periodo si era donne.
Ne il suo “Memorie di una Janara”, Emanuela Sica riesce a descrivere in prosa, poesia e ampie narrazioni scritte in vernacolo, quella che fu una vera e propria lotta per l’emancipazione femminile: il dramma di donne condannate al rogo o ad un violento ed umiliante autodafé, solo perché erano “pietra di scandalo” per il modo comune di intendere la società.
Esiste in questa nuova opera dell’autrice irpina un grande lavoro di ricerca storica e un raffinato sforzo poetico narrativo che fa emergere dalle tradizioni, dalle radici profonde della sua terra, tutta la bellezza e la “dannazione” dell’identità femminile, il suo “potere magico”, che quando si realizza nella libertà e nell’emancipazione diventa dono per la collettività e “Strega” per chi ha paura di mettere in discussione le proprie ottuse rappresentazioni del mondo.
Non sono, infatti, le streghe le amanti del demonio ma è il demonio della voglia di possedere e sottomettere l’altro che rende dannata e mortale ogni possibile forma di relazione umana.
In “Memorie di una Janara”, poesia, mito, ricerca storiografica e lessicale si intrecciano fino ad apparire al lettore un unico e raffinato “Cuntu”, un racconto da leggere e rileggere perché per ogni pagina che si sfoglia scorre una realtà che ne rimanda ad altre fino ad arrivare fin dentro l’inconscio, nei nostri stessi fantasmi; in un mondo che ha sacrificato il mistero per rifugiarsi nella falsa sicurezza di un potere maschilista che oscura, con ogni mezzo, l’altra metà del cielo.
In questa opera, la poetica della scrittrice sembra essere attraversata da due “anime” che si fondono magistralmente: quella del Verismo che appare nella puntuale descrizione del quotidiano e quella che si apre all’Incanto, al simbolismo misterico e che si traduce attraverso un linguaggio intimo, riflessivo, pieno di notevoli suggestioni tratte dal mondo della natura che per l’autrice è la rappresentazione simbolica e concreta del nostro stesso corpo, che invita e trasporta il lettore ad esplorare i profondi desideri, le paure e le contraddizioni di una donna che nella sua rivolta contro la discriminazione cerca di ricreare non solo la sua identità, ma anche quella di un ethos collettivo.
In questo senso e nella dinamica ancestrale fra Eros e Thanatos, la poetessa fa della Janara la detentrice di una Memoria che non è un ricordo statico, ma una “origine”, un’azione, una parola che plasma il presente e lo rinnova, come una primavera dolorosa che ha in sé lo sbocciare di una vita nuova o la morte per chi si ostina a restare nell’ombra di una visione dogmatica e narcisistica dell’esistere.
“Io sono semplicemente la guardiana dei segreti. Conosco gli incantesimi per guarire e per nuocere, posso portare prosperità o distruzione. La mia magia è un’arma affilata come una lama di ferro, e la mia conoscenza dell’ancestrale universo è ineguagliabile. L’etichetta di demone, strega malvagia, mi sta stretta. Io non sono nient’altro che il riflesso oscuro dell’anima umana, una manifestazione dei desideri e delle paure che giacciono nell’ombra in cui io riposo”. (Emanuela Sica, “Memorie di una Janara”)