Mario Falcone. Manuela. Giulio Perrone editore

Recensione di Vladimir Di Prima

Leggi “Manuela” (Giulio Perrone editore, 2022, pp. 409) e pensi subito alla serie tv Baby oppure a quell’altro film di Berardo Carboni, Youtopia, o ancora, andando a ritroso, a Ricordati di me di Gabriele Muccino. I riferimenti potrebbero andare oltre citando persino Pretty Baby di Louis Malle (1978) e naturalmente l’immortale Lolita, romanzo insuperato e insuperabile. Ma non è questo il punto. Mario Falcone unisce ingredienti conosciuti con una capacità narrativa abilmente votata al linguaggio cinematografico, offrendo così al lettore un’opera nuova, agile, azzarderei nel definirla addirittura epocale per le ragioni che avrò modo di spiegare in seguito.

La trama si svolge in una Roma attuale, allo stesso modo metropoli e provincia, metro perfetto del degrado nazionale; la sedicenne Manuela Narli, figlia della media borghesia cancellata dalla crisi, sconta la separazione dei suoi genitori: il padre, ex comandante di aerei a lungo raggio, licenziato dalla compagnia di bandiera e finito per un periodo nel tunnel della cocaina, non ha mai accettato il tradimento di Anna la quale cerca affetto fra le braccia di molteplici amanti. C’è anche Giacomo, il fratello minore di Manuela, un bambino di circa dieci anni; sembra che l’autore l’abbia messo lì da contorno per tratteggiare la famigliola perfetta sventrata improvvisamente dal fallimento, ma non è così. A un certo punto il bambino, piuttosto anonimo per quasi tutto il libro, sbuca fuori dalla pagina restituendo all’intero ordito quella umanità che appare senza speranza: “sei mia sorella e non devo perdonarti niente”.

Manuela ha un’amica del cuore, Giorgia, alla quale confida di tutto, pure l’insostenibile antipatia verso una compagna di classe, Selvaggia Munari. Se Giorgia appartiene ancora a quel mondo che gravita nella norma, altrettanto non si può dire di Selvaggia, adolescente snob e figlia della Roma bene. A questi tre cardini narrativi, delineati con grande perizia tecnica, si innestano personaggi secondari ma non per questo meno importanti: Renzo, Fausto, Tommy, Michele, gli ultimi tre dediti al consumo e allo spaccio di coca che fa fighi e che (soprattutto) garantisce tanta grana da scialacquare in beni voluttuari.

Manuela sa di possedere una bellezza fuori dal comune e sa che quella bellezza può fruttarle parecchio; se, in un primo momento, i propositi vertono alla legalità (provini per fiction, book fotografici con finalità pubblicitarie) la degenerazione non tarda a insinuarsi nella sua giovane vita. La ragazza, complici soprattutto le ristrettezze economiche del nucleo familiare in capo alla madre (donna ambigua), cade inevitabilmente nella trappola del materialismo post-moderno all’interno del quale la consumazione del prodotto equivale alla consumazione dell’individuo. Incontra Barbara, una parrucchiera che intrattiene loschi affari con strozzini, e che diventa presto la sua maitresse. Di qui in poi per la baby squillo si apre un mondo nuovo, fatto di soldi facili, droga, e colpi di scena narrativi di cui certamente il lettore rimarrà sorpreso fino all’ultima pagina.

Mario Falcone con quest’opera presenta il conto di un’Italia smarrita e guasta, decisamente irrecuperabile. Ne escono infatti tutti sconfitti, senza pietà. Tutti colpevoli e afflitti da un unico male: quella fragilità psichica ed emotiva che non risparmia neppure i più accaniti carnefici. E poi c’è la carne, appunto, altra protagonista eccellente di questo romanzo: giovane, fresca, al cambio corrotta, puzzolente, malata, sofisticata, grassa. Come una sonda endoscopica la penna di Falcone affonda in questo grumo tumorale pieno di metastasi a ogni livello: mariti insoddisfatti, giovani impotenti, vecchi tromboni, alte cariche dello Stato, imprenditori, giornalisti. Sesso e droga, tutta apparenza e niente più. L’amore, che a tratti sembra tendere la mano a questi naufraghi metro-provinciali, è un’utopia, un’idea neppure tanto chiara, certamente fraintesa.

“Manuela” è allora un romanzo epocale nel senso letterale del termine; e proprio perché descrive perfettamente un’epoca a dir poco spaventosa andrebbe adottato in tutte le scuole secondarie come monito, lettura e presa di coscienza verso un mondo che non può più funzionare così.

In una delle scene più cruente di un celebre filmetto dozzinale (The Dentist, 1996) il protagonista in preda a un delirio allucinatorio, mentre sta per deformare irrimediabilmente la moglie, rea di tradimento, pronuncia la seguente frase: “Io ho visto come sei diventata, marcia come tutti gli altri”. Una frase apparentemente banale, ma illuminante nell’associare il morboso processo della carie con la corruzione morale dei tempi. Il sistema dunque è cariato alla radice, pare ammonire Mario Falcone, che da abile dentista della parola estrae una storia formidabile la quale non può e non deve passare inosservata. Chapeau.

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