Malamente. L’educazione maremmana secondo Stefano Erasmo Pacini

Malamente. L’educazione maremmana secondo Stefano Erasmo Pacini

Recensione di Angelo Maddalena. In copertina “Malamente” di Stefano Erasmo Pacini, edizioni Effigi, 2022

“Malamente, una educazione maremmana”, di Stefano Pacini (Erasmo, il secondo nome in copertina, lo sconoscevo, ma lui spiega l’origine all’inizio del libro) è un’epopea che va anche oltre i confini toscani e nazionali, perché è uno spaccato di un’epoca e di una generazione che, oltre a vivere “pericolosamente”, ha anche viaggiato, con la consapevolezza politica e con i corpi; per esempio il primo viaggio che l’autore e altri tre amici intraprendono con la Mini Minor fino in Portogallo, nel periodo della Rivoluzione dei Garofani (il titolo del capitolo è “Alla rivoluzione con la Mini Minor”).

Nella prima parte di questo memoriale/reportage, ci sono echi di Rue des italiens, di Tony Santocono, epopea dei primi emigrati italiani in Belgio dopo il Patto italo-belga del 1946. In comune ci sono anche le miniere, quelle di carbone in Belgio, di altri materiali “metalliferi” nella Maremma che descrive Pacini.

Ci sono anche due rimandi espliciti al Belgio, uno a pag. 89: “Figurati, se provavi anche a fare un discorso contro il fascio erano manganellate, ammonimenti, licenziamenti, sai quanti hanno dovuto cambiare aria? Anche il Quintavalle dovette emigrare in Belgio nelle miniere di là”[…]. Qui è Tito che parla, “un vecchio senza età che spesso veniva a perdere un po’ di tempo in negozio”.

Il negozio gestito dalla madre del protagonista e narratore (Stefano che nel libro è chiamato Paco), Marisa: è donna all’avanguardia per quei tempi e quei luoghi, e anche il fatto di gestire un negozio di ferramenta era un segno distintivo in tal senso. Il racconto di Tito si riferisce agli anni Trenta, periodo in cui, benché se ne sappia e se ne racconti poco, già molti italiani andavano in Belgio come rifugiati politici… come nel caso di Quintavalle, personaggio che torna durante la narrazione.

Forse, a tratti, ci sono descrizioni che rischiano di scadere nella “macchietta”, o qualcosa di simile alla caricatura, per esempio quando, almeno un paio di volte, si descrive il personaggio che scorreggia. Interessante è lo stile narrativo orale e lo spazio spesso dato a testimonianze di vecchi e di coetanei del protagonista, che rientra in uno stile di narrazione della realtà, che si avvale di testimonianze orali e quindi vivaci e veraci. Nella seconda e terza parte il memoriale/reportage si inoltra nella narrazione del nostro “presente”, e descrive uno spaccato prezioso di lotte politiche di operai degli anni Settanta e di studenti come Stefano, iscritto a Filosofia a Firenze e coinvolto in diverse lotte di quegli anni ma anche nelle derive “pericolose”, sia politicamente che fisicamente. Da Beirut a Mostar, Stefano attraversa i teatri di guerra, fino a Cuba, con la macchina fotografica che lo porta, negli anni, a esporre le sue foto in Italia, Portogallo e altri luoghi.

L’ultima parte del memoriale/reportage mi riguarda perché descrive il Bar Ortica di Via Pantaneto che anche io ho attraversato negli anni in cui passavo da Siena, ospite anche del Palazzetto Occupato, e avevo descritto qualcosa di quegli anni, in uno dei miei primi libri autoprodotti: prove di emigrazione, diario di un esilio possibile.

Non sapevo degli ultimi risvolti repressivi che hanno portato alla chiusura del Bar Ortica, che segna anche l’epilogo di questo memoriale/reportage di Stefano. Le lettere di amiche (soprattutto le lettere a Laura, mai spedite) e di altri sodali di Stefano, spesso inserite nel libro rendono bene una dimensione di scambio e di testimonianze di vita, forse ogni tanto sono troppo lunghe e i corsivi messi in modo da non capire bene dove finisce il testo di una testimonianza e il racconto dell’autore, ciò non toglie che le quasi trecento pagine le ho lette in pochi giorni, quasi senza… fiato!

Ho conosciuto Stefano Pacini nel 2004, quando per la prima volta in tournée, partendo dalla Sicilia, andai a presentare il mio primo libro all’Osteria di Pian de Mucini, centro culturale vicino Massa Marittima di cui lui racconta verso la fine del libro. In quell’occasione lui mi disse, con il suo “cinismo” maremmano, che c’era una sola pagina valida nel mio libro, e che questo era già qualcosa: «la pagina 147, in cui c’è il vecchio che dice al giovane “la gente ha paura dei fucili e delle bombe ma non si accorge di un’arma che abbiamo dentro le nostre case, la Televisione, l’arma ca ammazza la memoria”».

Credo di poter ricambiare, e riconoscere che molte pagine del suo libro hanno il dono di riscattare e ricostruire una memoria collettiva sempre più cancellata e rimossa.

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