Liquefazione in un’aula universitaria
Racconto e foto di Giuseppe Rocco
Riesco a pensare a fatica in questa stanza dimenticata da Dio e cara al demonio. Mi sto sciogliendo, sto diventando puro liquame trasparente in un contenitore traboccante d’acqua. Il tremolio ha preso prima le gambe, poi ha assalito tutto il corpo. È troppo pieno, troppo. Un oceano di persone che ascoltano sia sedute che in piedi la voce stridula di un vecchio uomo stanco. Pendono dai suoni della sua voce, monotona e affaticata, prendendo appunti anche senza avere un appoggio.
Alcuni cercano di appoggiarsi al muro, altri si mettono a terra e scrivono sulle proprie gambe: chi ha un amico usa la sua schiena come un leggio per poggiare un quadernino e scrivere parole che non saranno mai più ricordate né rilette né pronunciate di nuovo. Registrano ogni suono, facendo diventare videocassette i quaderni. Penso che sotto i piedi di tutte quelle persone, che nascondono il pavimento, ci deve essere un tremendo segreto. Che questo sia un rituale per tenere in vita una divinità di quel sottosuolo?
E quel lieve, ma sempre crescente, rumore infernale di bisbigli e mezze parole mi spacca i timpani, mi fa girare la testa per la confusione. Non posso andare da nessuna parte: la porta è appena dietro di me e i due corridoi sono otturati. Se ci fosse una catastrofe, un incendio, una scossa di terremoto, succederebbe una tragedia. Anche con una situazione meno grave, con una goccia, potrebbe succedere una tragedia.
Non riesco neanche a respirare preso da una claustrofobia che non credevo di avere fino a quel momento.
Qualcuno mi guarda per distrarsi dalla lezione, incutendo in me la paura del giudizio che si mostra negli occhi di quelle anime dannate che non hanno altro da fare. Tutti i presenti hanno una faccia truce, sprezzante verso chi li circonda. Quelli che ridono sono pochi e le loro risate non mi consolano, anzi mi gettano in uno sconforto ancora maggiore.
L’unico modo per farmi notare dagli altri studenti e passare avanti sarebbe avere una pistola e sparare in aria. Sarebbe anche un modo per farmi notare dal vecchio, che ignora i volti di così tanta gente, tanto se li sarebbe dimenticati.
Il cambio di colore delle slide proiettate ad un muro della stanza mi acceca. Incapace di mantenere quella sofferenza ancora per un altro minuto, sbatto contro la porta uscendo goffamente. Decido di tornare a casa senza pensarci due volte. In quel monolocale, una stanza unita malamente ad una cucina, mi siedo a terra vedendomi ancora tremante.
Una vocina, la stessa che è la causa della tremarella mi suggerisce: “È solo il primo giorno”.