La strada in mezzo. Prima parte
Racconto di Gennaro Lento
La strada in mezzo era secca e polverosa, scavata al centro da un binario di rughe profonde, laddove abitualmente si trascinavano i pesanti carri dei contadini diretti alle campagne. Come ferita aperta, lacerava per lungo quella pianura assetata, riarsa dalla violenza del caldo estivo. Stoppie ingiallite ai bordi ne incorniciavano l’incedere stanco e lento di fiume antico, incessante eppure immobile. Nel crepuscolo i colori tendevano a fondersi in un grumo dapprima giallastro, poi ocra e poi grigio. Tutto era rivestito da un fitto strato di polvere che, come sudario, velava ogni cosa sotto un mantello opaco.
Da un lato della strada vi era una fila di edifici bassi, sulla quale sbocciava una serie di porte e finestre simili a bocche chiuse. Accanto a ogni porta, appesa a un chiodo come sanguinoso rosario, pendeva la collana del peperoncino lasciato a essiccare. Lungo i muri una magra platea di sedie impagliate sembrava attendere l’arrivo del pubblico per l’apertura di un qualche sipario. Al centro, solitario torrione, svettava una costruzione più alta e squadrata, che dominava incontrastata la scarna geometria del paesaggio. Sul muro bianco di gesso, corrosa dalla polvere e dal tempo, si leggeva la scritta in vernice rossa EMPORIO SARRO in caratteri maiuscoli e irregolari. Dall’altro lato della strada il nulla. Un rado filare di pioppi ingialliti, qualche paracarro in pietra e cemento e dietro il nulla fino a che poteva arrivare l’occhio.
In mezzo, la strada.
L’uomo dietro la finestra non aveva più di ventidue anni, anche se ne dimostrava quasi il doppio. L’ombra scura di una barba mal rasata ne incupiva i lineamenti disegnandogli delle rughe che non possedeva. Secco come un chiodo, come la miseria, diceva sua madre. Da bambino non era stato altro che quattro ossa attaccate insieme per miracolo e sembrava sgusciare fuori da ogni vestito, tanto era gracile. In pochi pensavano che avrebbe campato a lungo, u’ lientu, il magro. Aveva capelli chiari e corti, radi sulla sommità del capo a suggerire una prossima calvizie. Gocce di sudore gli scendevano dalla fronte fino sul colletto della camicia bianca, rigata da un filo più scuro di umidore proprio alla base del collo. Gli occhi spiavano febbrili dalle fessure della finestra chiusa. Da destra a sinistra, da sinistra a destra. Guardavano oltre la strada, di là dagli alberi, attenti a ogni minimo movimento. Tutto sembrava quieto e posato in quel momento, ma lui sapeva che presto ci sarebbe stata una gran confusione in mezzo alla strada. La mano destra stringeva il calcio di un fucile, ogni tanto ne avvicinava la fredda canna al volto per darsi coraggio. Con l’altra mano carezzava il capo di sua moglie, seduta per terra. Lui guardava fuori e lei cercava risposte nei suoi occhi. Era poco più che una bambina.
L’altro uomo era più vecchio, ma non di tanto, piuttosto sembrava provenire da un altro mondo. Tozzo e robusto, portava in testa un cappellaccio nero dalla larga tesa che gli copriva lo sguardo. Scuro di carnagione, cotto dal sole e secco come una corteccia d’albero. Lo chiamavano Canazzu. Cagnaccio. Il soprannome se lo era guadagnato sul campo, grazie alle scorrerie ai danni dei tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Coperto dalla notte e dall’ampio mantello, sbucava all’improvviso negli accampamenti dei soldati, sgozzando le sentinelle e rubando tutto quello su cui riusciva a mettere le mani. Armi, vestiti, cibo. Soprattutto cibo per i suoi che pativano la fame nera sulle montagne. Non lo presero mai. Una volta organizzarono una caccia all’uomo con un’intera guarnigione di soldati tedeschi, accompagnati da un gruppo di fascisti del posto. Perlustrarono le montagne metro dopo metro, ma lui e i suoi erano come svaniti nel nulla, evaporati nella notte. La gente diceva che erano gli spiriti dei morti a proteggerli e che tra i suoi ci fossero donne zingare capaci di fare le magarìe, i sortilegi. La gente ne diceva tante di cose.
Comunque, i tedeschi ci rinunciarono e continuarono a contare le vittime e i furti. Dopo la guerra rimase solo la miseria e i tempi divennero ancora più duri. Canazzu iniziò a depredare i contadini della vallata, guadagnandosi la fama di bandito violento e crudele e attirandosi le attenzioni della legge. Accompagnato da qualche compare della sua stessa risma, saccheggiava i casolari più isolati, facendo razzia di animali, formaggio e scorte di grano. Spesso agiva indisturbato, preceduto dalla paura che incuteva il suo nome e che piegava di terrore le vittime prima ancora di vederlo comparire. Rare volte era stato costretto allo scontro e in un paio di occasioni c’era scappato il morto. La legge ci poteva fare poco, vista la distanza dal più vicino comando dei carabinieri e la carenza di militari. Di solito arrivavano un paio di giorni dopo le rapine, avvertiti da qualche contadino di passaggio, si limitavano a registrare l’elenco della roba trafugata e ad accumulare denunce a carico di Rosario Trabucco, detto Canazzu. Ma a catturarlo neanche ci avevano provato. Non c’erano riusciti tedeschi e fascisti, figuriamoci un paio di carabinieri sovrappeso e padri di famiglia. Non era cosa loro.
Canazzu aveva una moglie, sposata a tredici anni tra le montagne, che lui aveva fretta di farsi una famiglia e tempo da perdere non ce n’era. Aveva anche una figlia, l’unica persona al mondo che riuscisse a sciogliere un poco quel grumo duro che aveva dentro il petto. E che all’indomani si sarebbe sposata. Con un ragazzo come si deve, sissignore, che Canazzu non dava l’unica figlia al primo che passava e anche se si sentiva incendiare le viscere al solo pensiero di non averla più in casa, avrebbe fatto lo stesso una festa che se la dovevano ricordare finché campavano. La figlia di Canazzu che si sposava.
Oltre la finestra ormai la notte era arrivata. La strada in mezzo era illuminata dalla luna, piena come un disco d’argento. E d’argento erano i riflessi che dava alle cose, alle pietre, alle stoppie, alle foglie degli alberi rilucenti come scaglie d’acciaio.