La ragazza unicorno di Giulia Sara Miori

Recensione di Gianfranco Cefalì. In copertina: “La ragazza unicorno” di Giulia Sara Miori, Marsilio, 2024
Cercherò di essere breve. Vi parlerò di “La ragazza unicorno” stilando una serie di pro e di contro. Naturalmente inizierò dai pro, e non mi interessa nulla dei vari effetti primacy o recency, di memoria a lungo termine o breve termine. Ma sto già divagando troppo, perciò iniziamo.
Pro numero uno: questo libro non è un Fantasy. Non ho nulla contro questo genere, però ammetto che, come dicono quelli bravi e giovani: it’s not my cup of tea. Ma nemmeno di caffè o altre bevande. Ma, sono un po’ stanco di regni, ragni, maghi, principesse (da salvare e non), guerrieri, draghi (e varie sottospecie, tipo il romance con i draghi, o quale sia l’ultima tendenza), del worldbuilding e delle sue regole. Comunque per me è un grosso pro a favore del romanzo di Sara Giulia Miori.
Pro numero due: questo romanzo non è un distopico. Lo so, già qualcuno di voi è pronto per linciarmi, vi vedo, vedo i vostri occhi feroci. Ma aspettate un attimo, a me piacciono i distopici, e che ultimamente sembra non se ne possa fare a meno. E peraltro ho notato una strana commistione, quando leggo di raggi cosmici di energia cerebrale (o quello che era) in uno strampalato miscuglio con la fantascienza, non posso fare a meno di storcere il naso. Poi, per quanto mi riguarda, il distopico dovrebbe sempre parlare del presente e non sempre ci riesce.
Pro numero tre: questo romanzo non è una saga familiare. Non ho nulla contro le… va bene, dico la verità, odio le saghe familiari, non mi interessa nulla della storia di una famiglia dal milleottocento a oggi, dei matrimoni, delle coppie, delle guerre, e di tutte le cose che succedono alle varie generazioni. Perciò ai miei occhi questo pro vale doppio.
Pro numero quattro: non ci sono postini, portalettere, arancini, arance, olive, ‘nduja, dialetti, neo lingue, profumi di piante varie e altre amenità del genere.
Pro numero cinque: non è un romanzo sulla provincia. Non ho nulla contro la provincia, ma sarei anche stanco di baretti di periferia, stradoni male illuminati, di Chicco e Spillo, Spada e come cavolo si chiamano, sembra che in provincia esistano solo bar piccoli e sporchi, frequentati da pazzoidi, bevitori di strani miscugli che dovrebbero caratterizzare la suddetta provincia e personaggi che invece del nome hanno un soprannome stupido. Sono stanco dei pettegolezzi di paese e femmine procaci. Adoro la provincia, ma anche in questo caso sembra stia diventando una moda. Poi siamo tutti provincia di qualcosa o qualcuno.
Pro numero sei: questo libro è scritto benissimo. Asciutto (non mi piace come termine, ma anche in questo caso sembra che non se ne possa più fare a meno), con uno stile incisivo, che non prende strade divergenti ma si concentra sulla storia, sul personaggio, sul messaggio. Essenziale non vuol dire banale o sciatto o piatto, vuol dire un lavoro fatto ad arte (bisogna sempre ricordare che togliere è sempre più difficile che aggiungere) in cui non c’è spazio per il ricamo (naturalmente il ricamo fatto male, meglio specificare), ma un grande ritmo che accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina. Con una prosa elegante e pulita, senza fronzoli (anche perché nei libri belli si instaura subito qualcosa nella mente del lettore che gli fa dire: questo è l’unico modo in cui poteva essere raccontata questa storia, ed è un elemento da non sottovalutare mai), riesce a scolpire i personaggi e le situazioni, perché nonostante il finale aperto si ha comunque una sensazione di completezza, una completezza che lascia tante domande nella mente del lettore. Completezza anche e soprattutto del testo, dei personaggi, della vicenda.
Pro numero sette: questo romanzo ha un sapore kafkiano, lynchiano, senza volerne essere una stupida imitazione. Ha sia qualcosa dell’onirico di David Lynch, con le strade perdute che si percorrono, sia gli spazi ben definiti e bianchi, bianchissimi, con memorie che provano a palesarsi e volti che si sovrappongono in dissolvenza incrociata; e sia di Kafka, del suo processo, della grottesca “avventura” di un uomo, dei dubbi, ma anche di una certa inconsistenza, di una strana sensazione di essere davanti a un grande vuoto. Del protagonista? Bella domanda. E poi vuoto che si potrebbe riempire, sì, ma con cosa? Da chi?
Pro numero otto: in questo romanzo c’è un prigioniero e di conseguenza una prigione. E come tale ci sono tanti risvolti. Prigioniero di chi? Di cosa? perché è prigioniero? Ha una colpa? e che cosa è la prigione, cosa rappresenta? E il prigioniero, come reagisce? Reagisce? Ammetterà la sua colpa? La prigione come metafora di cosa? Della vita? (mi sembra un po’ banale), no, no di certo. È bello provare a ragionare intorno al concetto di prigione in relazione all’uomo, al suo “personaggio”, ai carcerieri, alla ragazza unicorno (ne parleremo brevemente dopo), infatti una delle domande più importanti che ci dovremmo porre è: il protagonista di questo romanzo in che cosa è prigioniero? Di cosa è prigioniero? In che cosa non è libero?
Pro numero nove: in questo libro c’è il bianco. Che non è qualcosa di pacifico, di tranquillizzante, e non è nemmeno asettico o forse sì, forse è qualcosa di disturbante, perturbante, come una tortura, qualcosa che ci dice molto sul personaggio, un anonimo essere umano, che non è speciale, non è un eroe, non segue aiutanti improbabili o vie a forma di sinusoide. Il bianco come spazio mentale, come cancellazione dei pensieri, come una mano di vernice che annulla tutto. Il bianco abbacinante che stordisce, che non assorbe tutta la luce. Che ha nel suo contraltare il nero, che sommati insieme danno la zona grigia.
Pro numero dieci: perché in questo libro c’è la ragazza unicorno. E non credo ci sia bisogno di aggiungere altro (vi invito a informarvi, basta poco, andate su Google).
Pro numero undici: la copertina di “La ragazza unicorno” è bellissima. E credo che anche in questa occasione io non debba aggiungere altro.
Pro numero dodici: perché Sara Giulia Miori è proprio brava. Perché questo è il suo primo romanzo, ma l’autrice aveva esordito con una bellissima raccolta di racconti: Neroconfetto (che vi consiglio di recuperare e leggere).
Pro numero tredici: perché questo romanzo ti lascia in equilibrio precario. Sì, perché se si ha la voglia di capirlo davvero, non si può fare a meno di sentirsi come un equilibrista sulla corda, attaccata tra due grattacieli e senza rete sotto, alle volte anche senza bastone.
Con i pro penso di aver finito, anche se potrei scriverne tanti altri, dovrei solo fermarmi un attimo e continuare a riflettere, ma penso che per il momento possano bastare. Ora dovrei, come scritto in apertura, iniziare a elencare i contro. Al momento non me ne sovvengono, però sono aperto alle vostre eventuali critiche, perciò, una volta che lo avrete letto, vi invito a ritornare qui e scriverli (sempre se ne troverete).
Comunque, ritorno a essere meno arrogante (si scherza naturalmente, sempre meglio specificare, non si sa mai, e naturalmente sull’autrice o sul romanzo non scherzo), Sara Giulia Miori è un’autrice molto interessante, con idee chiare e stimolanti, che riesce a trasmettere qualcosa, senza mai cadere nella banalità e nel conformismo, che non segue mode facili.
Un’autrice che vi potrebbe anche spiazzare, ma sta proprio qui il bello della letteratura, saper confondere il lettore, anche lasciarlo solo, scombussolargli la mente e i suoi pregiudizi, preconcetti, insomma, farlo pensare.