La costanza del cielo di Gian Piero Stefanoni

La costanza del cielo di Gian Piero Stefanoni

Recensione di Filomena Galiardi. In copertina: “La costanza del cielo” di Gian Piero Stefanoni, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2024

Zeus, il dio più importante dell’Olimpo, era considerato il dio del cielo luminoso. Ciò anche sulla base dell’etimologia del nome. Si trattava – Zeus – di un sostantivo greco a più radici: una di queste si ritrova nel latino nei sostantivi dies (giorno) e deus (dio) forieri della nozione di luce; il giorno è il momento della luce e il dio è il luminoso.

Il cielo, dunque, è luminoso perché vi abita il divino, luminoso per eccellenza. Fatta tale premessa, posso partire a scrivere qualche considerazione circa la raccolta poetica “La costanza del cielo”, uscita da poco per Il ramo e la foglia edizioni, una casa editrice che annovera un catalogo assai interessante, sia nella poesia, che nella saggistica che nella narrativa.

Il titolo sta ad indicare che il cielo è qualcosa che ‘cum+ stat’ = sta insieme con, resta. In che senso? Nel senso che non si muove, non cambia, resta invariabile nel tempo e nello spazio.  Il cielo è sopra di noi, ci sovrasta sempre, ci governa, ci guarda, ci invia segnali o è in silenzio: ma è sempre lì, anche quando non sembra. Si tratta di una caratteristica che emerge pian piano nel testo, complici alcuni elementi rivelatori, adeguatamente inseriti.

Innanzitutto, all’inizio delle intense settantaquattro pagine che costituiscono il volumetto, c’è una Dichiarazione di poetica in cui lo scrittore parla della necessità di una parola in grado di comunicare e unire. Seguono tre sezioni: L’odore del campo, Appendice, La costanza del cielo. Come si vede, la terza è quella che dà il nome all’intera silloge e la si nota soprattutto se si legge il libro prima in ordine e poi a ritroso, come spesso faccio io con le raccolte brevi: in tal modo “La costanza del cielo” non è solo una meta, ma anche un punto da cui iniziare.

Lo racconta bene la copertina: una finestra che lascia solo intravedere l’interno. Sono tenuti insieme, in tal modo, il prima e il dopo della ricerca. Tale connessione è la cifra portante del testo di Stefanoni, elemento insito del resto anche nella predetta Dichiarazione: “Soli non siamo nulla, mi ripeto e avverto continuamente. Soli non ci salviamo”.

Nel noi è presente anche la Natura che ci guarda come cielo, e siamo presenti noi stessi, che rimandiamo a Lei: è la lingua stessa che lo dice: “Comporta un peso quest’ombra leggera/che si distende nel mare.//La terra, come gli amanti, non è sola/nella finitudine della forma.//Esclama e riapprende da una parola non sua”. Il peso, la parola derivano dal cielo che avvolge la terra, creando con questa una copulazione: la copula è un legame verbale ed essenziale che connette; la copula è il cordone ombelicale che ci lega alla madre. Il lessico, allora è sempre madre (Lessico madre).

Che il cielo sia madre amorevole si vede successivamente: “Il cielo piega la testa, / l’amore guarda/e restituisce, senza aggiungere/per la notte che verrà/e a cui non sapremo rispondere/perché l’opera non è di uno” (Il cielo piega la testa). Il cielo è il divino nella sua pluralità indistinta, non unitaria, non singola: in effetti Zeus è il Re dell’Olimpo, ma con lui ci sono altri dei; per i Greci, il mondo è pieno di dei; il divino è ovunque: non questo, non quello, ma dappertutto aleggia e ogni punto opera per noi. Eppure il divino, in quanto luce, ci svela quando “È terminato il buio./Ora la luce dirà/ quanto campo è rimasto/quale uomo nel volto” (È terminato il buio): tale divino è il cielo che, costantemente, ci mostra le cose per come sono.

Le cose sono dolorose: e solo la luce le mostra nei loro dettagli, svelando, per dirla con Martin Heidegger “la cosità della cosa”. Può trattarsi di Doglie: “Ha una doglia lo sguardo/ della luce sulla terra”; e qui mi ci gioco tutto che luce sia sinonimo di cielo, stando alla premessa etimologica di cui sopra; è lo stesso cielo che piegava la testa di qualche lirica citata poco fa; oppure il dolore può assumere la configurazione di Salite: “Perché per partecipata terra/quest’alito breve, questo profumo/al termine della salita che apre all’azzurro/nell’immagine scoperta dell’uomo” .

Torna sempre l’uomo scoperto e messo a nudo dalla luce, stavolta declinata come “azzurro” (alias il cielo di cui sopra); eppure spesso anche siffatta luce non rivela tutto: “La povertà della luce senza immagine/la madre sola a dare figura…// Lo devi sentire, lo devi pensare/l’arrivo, il suo ritorno/nello scioglimento del ghiaccio.//Noi non vediamo tutto” (La povertà della luce).

In altre parole, nonostante l’importanza della luce, del cielo, quale elemento rivelatore della nostra verità, ciò che permette davvero di conoscere è il contatto fisico; ad esempio il contatto tra dentro e fuori, terra e cielo che torna nell’immagine materna riassunta molto efficacemente nel componimento La porta stretta: “Ripete la sua meraviglia nella donna che ha accolto./Converge all’umano, attacca a se stessa/la terra, preparata alla morte”; oppure un bacio: “Adesso si fa baciare la cara terra di oggi.//Ha figura di vecchia senza più scudo/né cosmo, libera allo scambio,/alla parola che viene dal mattino.//Sempre feconda sempre possibile/nella parte di sole – nella riserva di fiato a te serbata – respirala,/accoglila come lei ti accoglie/rimessa alle statue, offerta al latte” (Lo scambio).
La stessa Natura sa di non essere tutto: anche se si auto-contempla, per conoscersi deve sempre ascoltare “una voce”, incontrare “un ricordo e una nascita”, fare in modo che le sue nuvole obbediscano al finito (Autobiografia del cielo).

La conoscenza implica “sinesteticamente” la sintesi fra i vari sensi: Costanza è anche valorizzare quel cum dove tutto sta insieme e che tiene tutto insieme, come si legge nella poesia omonima di tutta la raccolta: “Sa dove il frutto/è fatto opera, di quale annuncio,/di quale scaglie l’ombra ora riluce/nello strappo di vita delle forme.//Sa per femminile trasparenza/la visione dell’ultimo nato, sul ramo la costanza del cielo che non cede”.

È necessario immaginarselo il soggetto di quest’ultima lirica che in effetti arriva solo all’ultimo verso: la costanza del cielo che non cede sa tutto in quanto contempla le trasparenze, ovvero il libero fluire dei corpi, l’unico modo in cui possono manifestarsi a noi come se potessimo toccarli, come è possibile che accada in un bacio, in un’autocontemplazione, nel grembo materno, nella Chora dei greci e nella parola che, come copula, unisce gli uomini tra i millenni, nell’antica Roma, tra i camminamenti, tra i reticoli della storia.

In conclusione, invito a leggere il libro qui presentato che si fa apprezzare anche per le scelte stilistiche, quali una versificazione di varia lunghezza, non sempre scontata nell’ordine logico e sintattico di parole e costrutti. I termini cari all’autore sono quelli legati al femminile che dà luce, al latte che nutre, alla terra e al cielo che sembrano gli eterni fidanzati agli estremi di una società civile bisognosa di una parola che unisca e che doni speranza: “Prepara al silenzio e al fiume/la parola nel greto che guarda al fiorire”.

Chi è Gian Piero Stefanoni

Gian Piero Stefanoni è un poeta e critico letterario, nato a Roma nel 1967. Laureato in lettere moderne, ha pubblicato in precedenza altre opere; collabora con riviste letterarie ed è giurato in vari Premi letterari.

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