La carne
Racconto di Daniela Grandinetti
La storia della carne iniziò che avrò avuto dieci anni. La prima volta che mia madre mi spedì alla macelleria da Don Mimì ricordo le chiesi:
“E i soldi?” se andavo a prendere la carne da Don Mimì avrei dovuto pagarla.
“Tu vai che tanto Don Mimì lo sa”. Fu la risposta.
Così avevo capito che noi quella carne la prendevamo a credito, anche se non mi era chiaro chi pagasse, visto che a casa mia di soldi ce n’erano a malapena per sfamarsi. Lasciavo malvolentieri i giochi per strada, anche perché a me Don Mimì non piaceva affatto. E nemmeno la sua bottega di macellaio a dire il vero, un bugigattolo all’angolo della piazza del paese che ai miei occhi era una bottega degli orrori. Intanto perché Don Mimì, che era un uomo corpulento, portava un grembiule bianco sempre sporco di sangue vivo come se avesse appena sgozzato un animale; poi perché era sempre a maneggiare coltelli affilati e mannaie di tutte le forge. Ogniqualvolta vedevo Don Mimì alzare il braccio nell’atto di tagliare la carne, mentre il metallo della mannaia luccicava sospeso per aria, l’attimo prima che si abbattesse sul pezzo di carne io trattenevo il respiro e chiudevo gli occhi con il terrore che magari Don Mimì sbagliasse e si trinciasse una mano. Invece quella si abbatteva sulle costate e sulle bistecche con una precisione millimetrica e solo lo scricchiolio delle ossa rotte nei pezzi di carne mi faceva riaprire gli occhi per lo scampato pericolo.
I muri della macelleria erano di un verde pistacchio che faceva risaltare il rosso della carne dei quarti di bue appesi ai ganci. A volte mi assaliva un tremore alle ginocchia per via degli sguardi pietosi degli animali. Nonostante fossero carcasse, era come se in quegli occhi la vita ci fosse ancora. Mi sentivo colpevole per quella mattanza di cui non ero responsabile: file di teste di capretti e agnelli, colli penzolanti di galline che gocciolavano sangue, mosche che sciamavano ed emettevano un ronzio fastidioso e opprimente. Quando sei una bambina certe cose ti entrano nella testa, ti si stampano nel cervello e lì restano per sempre. A me da allora è rimasta una sorta di ripugnanza claustrofobica per le macellerie e i macellai.
Quando Don Mimì mi vedeva entrare nella sua bottega era subito pronto a servirmi. Se non c’era nessuno la sua premura mi faceva sentire importante, mi trattava con un riguardo benevolo che un po’ mi ripagava delle visioni sanguinolente, del cattivo odore e dei timori di arti tranciati. Se però capitava ci fosse qualche cliente, quella stessa premura mi metteva a disagio e soprattutto quella cosa che poi andavo via senza pagare mi faceva vergognare, come se quella carne l’avessi rubata. Non vedevo l’ora di correre a casa, liberarmi del fardello e tornarmene in strada a giocare.
“Ciao Armida, sei venuta a prendere la carne?” “Buongiorno Armida, vediamo cosa diamo oggi a questa bella signorina, ho giusto un bel pezzo
macellato fresco fresco “ Erano più o meno queste le cose che mi diceva Don Mimì, che con me si dimostrava sempre di buon umore, pure se aveva fama di uomo scorbutico. Mentre aspettavo avevo addosso lo sguardo delle bestie appese che mandavano maledizioni alle mie spalle, non vedevo l’ora di prendere il mio cartoccio e uscirmene di corsa, con Don Mimì alle mie spalle che di solito diceva: “salutami mamma tua” oppure “porta i saluti a mamma”. Chissà perché, pensavo, a mio padre i saluti non glieli mandava mai. Mia madre era una donna bella come erano belle le donne a quei tempi, con i capelli lunghi e nerissimi, minuta ma ben fatta, con un seno florido e un viso bruno sul quale spiccavano le labbra rosse ben disegnate. Non ho mai capito come fosse finita a sposare mio padre, un uomo mite e dall’aspetto ordinario. Suppongo che allora le donne non scegliessero con chi passare il resto della propria esistenza. Con il tempo ho maturato la convinzione che per mia madre sposare mio padre era stata l’occasione per andarsene via dalla casa paterna e avendo conosciuto mio nonno posso perfino capirlo.
Dopo un paio di settimane che avevamo cominciato a mangiare la carne di Don Mimì, una sera mia madre mise in tavola uno spezzatino cucinato con il pomodoro e le patate che emanava un profumo che avrebbe fatto resuscitare i morti. Io e mio fratello Rino ce ne stavamo con la forchetta stretta nel pugno con lo sguardo fisso sulla pentola, quasi là dentro ci fosse una pozione magica. Di solito era sempre mio padre a servirsi per primo, ma quella sera lui, anziché prendere la sua porzione, batté un pugno sul tavolo e la pentola saltò per aria: le patate e i pomodori finirono sulla tovaglia e la macchiarono di rosso. A me venne subito in mente il grembiule insanguinato di Don Mimì.
“Io carne non ne voglio più.” Disse irritato. Mia madre invece non si scompose più di tanto. Lo fissò con un’occhiata indolente.
“Bene – gli rispose – se non ne vuoi tu, vorrà dire che ne mangeranno di più i tuoi figli, che la carne fa sangue”. Prese il piatto di mio padre e lo svuotò nel piatto già pieno di mio fratello Rino. “Tu pensa a mangiare, che si raffredda.” Disse a Rino.
Io fissavo mio padre e non sapevo cosa fare. Di solito la carne che cucinava mia madre, una volta in tavola, per me non aveva più niente a che fare con il sangue e le teste mozzate della bottega di Don Mimì. Diventava odore di rosmarino e aglio, di origano e pomodoro, di prezzemolo e timo. Insomma, era un’altra cosa, e io la mangiavo con gusto. Ma quella sera lo spezzatino mi sembrava la maledizione delle teste dei capretti appesi, avevo l’impressione che se l’avessi mangiato avrei fatto un torto a mio padre. Stavo ferma, non osavo dire niente, mentre mia madre e mio fratello continuavano noncuranti a mangiare. Io guardavo la carne nel piatto, poi guardavo mio padre. Lui fissava mia madre, poi Rino, poi il suo piatto vuoto.
Questo gioco di sguardi continuò per attimi che mi sembrarono durare un’eternità, respiravo il pericolo di qualcosa che stava per accadere. Mi sembrava che all’improvviso nella nostra casa fosse entrato un ospite inatteso, non sapevo bene cosa fosse ma c’era, era lì, seduto con noi. Adesso so che era la cattiveria, la puzza della povertà che fino a quel momento non avevo sentito, era l’orgoglio di mio padre, e nei giorni a venire avremmo dovuto farci i conti. Credo di aver imparato quella sera quanto può essere angosciante il silenzio, quanto le parole taciute siano come le nuvole dense e nere di un temporale in lontananza. Nel bel mezzo di quel silenzio, d’un tratto mio padre si alzò in piedi di scatto, la sedia planò rumorosamente sul pavimento e senza dire una parola prese la sua giacca e uscì sbattendo la porta. Mia madre non alzò nemmeno lo sguardo, non disse niente. Se ne stette qualche momento zitta e poi ci disse:
“Mangiate e non vi preoccupate, che tanto dopo che si sarà riempito lo stomaco di vino, vedrete che torna. Voi pensate a mangiare, e ricordatevi che noi mangiamo come i ricchi, che i poveri uguali a noi la carne non se la mangiano, che non se la possono permettere. E vedete pure di finire tutto quello che avete nel piatto, che niente ci deve restare. La carne non si spreca. La carne cara costa.”
Il tono con cui mia madre pronunciò queste parole mi colpì come uno schiaffo. E ancora adesso non so dire se a bruciare la mia infanzia siano state le sue parole o la reazione di mia padre, con le liti e le botte che ne seguirono per un tempo che ho dimenticato di contare. Ci sono cose che accadono e non se ne vanno. Se ne stanno lì come un vestito caduto in un angolo dell’armadio che dimentichi di avere fino a che un giorno per caso spunta fuori.
Io per molto tempo mi sono chiesta come facessimo a pagare la carne a Don Mimì e perché cominciò l’inferno in casa nostra. Mi ci sono voluti anni prima che potessi darmi una risposta.
Fino a quel momento non ho fatto altro che scrivere quella risposta con il dito su un vetro impolverato, avendo cura di cancellarla ogni volta per il timore, o la vergogna, che qualcuno la potesse leggere.