Interstellar Overdrive

“Interstellar Overdrive” è il titolo che abbiamo dato a queste cinque poesie di Rocco Giudice. La foto in copertina è creata con l’intelligenza artificiale
FRA I DIMENTICATI
“Cos’è la mente?” domanda la mente.
Il pensiero non l’afferra – e vacilla.
Una ben tornita testa eminente
fa da recipiente che la sigilla.
Nuvola opaca che non fa velo,
raggio o orizzonte, luce che accende
un sole ch’è già tutto il cielo
dove arde e con cui si confonde.
Un vento, non il sogno che si porta via
la mente – o nel vento, una nuvola
d’immagini per nessuna nostalgia,
di parole che incantano la favola
al caldo per l’inverno che vi spira
fra dettagli da tenere a pretesto.
Senza tempo, un orologio che gira
a vuoto in cerca del ritmo giusto.
Vuota la stanza più della finestra,
che di fermarsi il sole invano implora:
un raggio e un filo d’ombra ammaestra
la carta da parati e la sua flora.
Ruggine, polvere e macchie d’unto
messe a lordare la pietà: l’ospizio
dello stesso male s’è consunto:
la strofa sa di fine senza inizio.
E ora, la filastrocca altalenante,
saggezza ch’è un detrito dell’età
che avanza col suo tempo andante,
da una stanza all’altra porterà
a ruota la rima che non muta,
fissando in uno stampo la memoria
alzata in volo sul punto di caduta,
in quel cielo, cornice solitaria.
Si vede solo il muro del viale
dalla finestra aperta sul giardino:
nella stanza affollata di parole
il suono trova l’eco sul cammino.
La prospettiva è di una forma chiusa.
La finestra non va oltre il muro
che ha di fronte. Così è reclusa
l’aria che sta fuori: nulla al sicuro
che non senta in quella sintonia
o nel silenzio che gli fa da sfondo
ricordo o oblio, una prigionia
che sul rigo allinea il girotondo.
Nella discesa, la mente arranca.
Sporgendo dal lato sempre in ombra,
s’affaccia alla lucerna che le manca:
trova un riflesso di parole – timbra
col verso impuro la pagina bianca.
Pubblicata dalla rivista online ClanDestino.
***
ORATORIO DEGLI INUTILI
Ora che tutto è fermo, a tremare è solo
l’aria nell’arsura – nulla potrà turbare
la calma che solo il clima ci ha portato.
Ogni cosa al mondo pare intinta nell’oro
che non illumina quanto esso conserva,
pensando che gloria possa mai meritare
la faccia confluita nella pietra amorfa
per fuggire dolori indegni di un uomo,
mentre, perché non sia umiliata in noi
la terra che ci regge, serbiamo in gola
ogni lamento come il segreto più prezioso
a noi rimasto, un grido aulico interrotto
o ingurgitato sul più bello, senza che sia
da ciò dissuaso o commosso lo spavento;
e per non essere da meno dell’esempio
civile che ci viene offerto, restiamo
immobili, ma fusi allo spazio di una fuga.
In compenso a un tale sfoggio di morale,
nessuna recriminazione – neanche su di me.
Un salice compone col vento i suoi salmi.
Nulla di più attuale d’una rovina. L’ombra
è l’unico frutto che maturi a questo sole.
Quella statua è più spoglia d’un albero;
la fontana è più secca delle tue labbra,
più muta d’un orecchio teso alla conchiglia
vuota ai piedi del relitto ch’era un nume.
Hanno cambiato i rami alla magnolia,
nessun’aquila che vegli le sue foglie;
nemmeno l’aria vuole le parole
e dalla voce l’eco le distoglie.
Domani – ma è già qui che attecchisce
per essere eterno almeno nel granito,
terra che la morte non ha contaminato
come l’erba, di cui è finta l’indulgenza,
lieta d’essere trattata come una materia
innata, mentre intorno tutto il resto muore
per il gusto di sapersi marcio, per nascere
cento volte ogni giorno per la centesima
volta o la centesima vittima… Che siano
intatte almeno le parole o il grido
che il gemito travolse nel suo flusso
o il canto che sgorga come sangue
dalla voce ferita e dal silenzio che dura
sin dall’inizio dei tempi, ma rimane lì,
scegliendo d’esistere felicemente
nell’attimo in cui non accade nulla; o
sopravvissuto per un istante all’intero
universo – per domani o altra servile
e delicata ridondanza, guardando in alto
ancora pietra, altro metallo, nuovo
sole e l’aria che non sarà mai più
così pura – domani, che ascolti
nelle parole che più somigliano
al silenzio non udito ancora o mai:
e tutto, adesso e qui, ne sia il coro.
***
GALATEA
Non avendo avuto mai da te
una parola, fatto mio il tuo
mutismo, messe insieme
le due esatte metà dello stesso
silenzio senza che combacino,
non ti chiedo scusa se vado
né perdono se rimango qui.
Io starò da parte con le statue
cui tu sola hai tolto la favella
scontando l’esilio dalla carne
nella pietra gravida che nutre
sorridenti putti ben pasciuti,
mentre angeli della razza di marmo
giacciono insonni nella loro notte.
“Perché andare, se dovrai fermarti”
“Perché sognare, se dovrai svegliarti”
non lo farò io né l’erma che tu sei
ai lati dello specchio in cui l’immagine
ferma nell’atto di fuggire è solo la mia.
Quel che nel ricordo era già oggi,
oggi è mutato in solida apparenza,
promessa che nessuno può esigere,
che chiunque lo voglia, che qualsiasi cosa
anche la pietà, può, senza pietà, tradire
– non mentirà imbellettarsi di quest’impostura
né l’orizzonte in cui fuggendo hai sepolto
la bellezza perché, reclusa, vi si specchi.
Nella pietra che ne accolse la preghiera
l’immagine trovò salvezza, non riscatto
– è stata la carne a immettervi
i principi attivi dell’ozio
che con dolcezza s’insinua nella forza,
il motivo conduttore del sonno,
l’enzima della corruzione, il fragore
del sangue che corre cantando
verso luoghi nascosti ai sogni,
le schiere angeliche degli anticorpi
e l’autodeterminazione del cancro,
l’orgoglio liquefatto nelle lacrime
– e ora, bianca, germogliata dalla nuvola
che l’ha generata, dovrà imparare a fare
a meno di te l’immagine che di te mi resta
– solo dagli occhi affiora il terrore di esistere
come una grazia che non si addice al mondo.
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NEL PAESE DELLE ESPERIDI
Nessuno che arrivi qui è uno straniero
ma non può esser mai meno d’un dio,
noi ci siamo venuti perché l’ho sognato,
seconda pelle, il mare – sfilato, strappato
di dosso, l’origine indelebile del derma
è il marchio depositato nello sperma
– chi potrà riscattare questa tenebra,
ero bianco, biondo figlio di una Esperide
ora sarò per sempre lo spirito della terra
su cui dovrò vegliare – quattro latitudini
di steppa e sotto i piedi, sempre la versta
più lunga di tutte, la più adatta a misurare
distanze che più nulla hanno a che fare
con lo spazio, luoghi essi stessi dispersi,
parafrasi spaziale di quello che mi attende
– posso vivere solo dove so che mi perderò.
Lascio come unici miei avi e averi
la neve in conto-deposito di aprile,
l’ottobre del Diciassette e il novembre
dell’Ottantanove, più una data incerta
mimetizzata nel Novantuno – imperi
regni e regimi si disfano prima di quanto
ciascuno di essi possa da noi imparare,
ma le foglie cadono quando vuoi tu
e tigli e mimose, intanto, scendono
con le ombre sopra l’acque cui
il ghiaccio s’è piegato che non ce la fa
a affondarvi come nulla che abbia ali,
nulla per gli occhi cui affidare questa
luce e questo sonno, così diventa tutto
musica per l’iPod che morde le orecchie
ai manichini e tutta la città dovrà ballare
ne danno avviso le sue campane – ascolta
stornare dall’alto di torri e cupole, vertigine
sonora, un mondo morto e le sue miserabilia
– dica l’ultima parola sull’amore il vendicativo
dio della Guerra Fredda perduta e qualunque
ruffiano, sulla libertà dei popoli – ma io,
io guardo il cielo a nord, a nord del cielo.
Dnepropetrovsk-Sinelnikovi, Ukraijna, marzo 2005. Pubblicate in Atlante degli addii, Newl’ink, Acireale, 2017.
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INTERSTELLAR OVERDRIVE
Come toccare il cielo con un dito
o cavare un ragno/stella dal buco
nero dello spazio – non finire mai
è come avere fine ad ogni istante
laddove nessun limite sussiste.
Sul palmo di una mano. Fra le dita,
parabola d’arcobaleno che le intreccia,
il visibile s’eclissa all’apice del sole
che vi tocca la sua più cupa ascissa.
Luce inerme ipnotizzata dall’incanto
che vi splende e da cui è soggiogata:
luce dissolta, arenata e arresa alle cose
che ne sono sfiorate, di cui trattengono
la linfa segreta – stella prigioniera
dell’orbita sfuggente cui strapparla,
stella accanita che flagella il meriggio
di cui schiude le porte – trafitte
dallo stesso raggio che vi si nasconde
le foglie fremono, percorse da un calore
che nessun amore ti potrà mai dare.
A queste rive indugia la corrente:
vi s’adagia e riposa la forza
che trascina in alto o a fondo
e esige d’assorbire ogni più fredda
sostanza. La senti, anche di più, dove
essa manca – c’è. Ora, posso lasciarla
andare. Ora, posso restare anche senza
di te. Ma il raggio in cui risplendi
ha fatto tanta strada solo per toccarti
– non ti lascia, volendo ardere di più.
L’attimo addensa luce che trabocca
riverberi spinti dalla risacca aerea
che vi sporge e invano si protende,
sciolgono il viso che vi affiora,
foglia fluttuante anch’esso, fusa
e sparsa immagine, fissa ancora
al lume che l’invoca in una perfezione
oltre cui non è dato esistere
e in una terra già così beata, sta
come cosa a nessun mondo appartenuta.
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ANNIVERSARIO
Guardo tutto quel che c’è intorno come
fossi tu, stupendomi che tu sola manchi
– come saresti e sei, so immaginarlo,
il viso depurato dall’assenza, meno
giovane, ma teso e più nitido nei tratti.
Non so di che si lagni la scritta sul muro:
se, sua matrice, l’ha fatto guasta l’ombra
o non sia parte attiva dello stesso
miraggio in cui il visibile dirada
con quel che ha avuto in dono un senso
e quel che deve accontentarsi di esistere.
Stretta al muro è anche la mia voce
che nell’aria ripete quel messaggio
che non disdegna di stare in luogo inerme
di chimere che aspettano di vivere
dove nessuno vide crescere l’ortica
– con segni di cui la stessa calligrafia
d’arzigogoli si duole, di una così
remota antichità da somigliare
all’oblio da cui non tornerà più rinnovata.
Rimane il muro che mi fa da specchio
più lieve dell’ombra che lo regge,
tu che ora ti sei fatta più lieve
dell’immagine sognata, pura immagine
che nessun dio protegge dall’assenza.
La nuvola che amavi s’è sopita:
con la ringhiera di corde d’arpa tese,
sono le scale a far da pianoforte,
l’acqua sale a plasmarvi la sua presa
per l’erba cui chiedere perdono
per chi la piange, ch’è di lei più vile.
Ci sono anch’io in quel silenzio che stordisce
gli angeli che ci fanno innamorare di un sogno
ed è tutto il rumore del mondo cui manca
la tua voce, mentre sento la mia staccarsi
dal pianeta: e tutto grida perché tu non ci sei.
Io solo taccio – parlando, scrivendo, vivendo.
Tratte da In linea d’aria, Qed edizioni, 2025
Chi è Rocco Giudice?
Rocco Giudice è nato a Palagonia, in provincia di Catania, nel 1957. Ha pubblicato le raccolte di racconti Sotto il trono del pavone (Pellicanolibri, Catania, 1994), Il gong della luna nuova (Res in Artibus, Catania, 2000), Tetralogia minima (Res in Artibus, 2001) Gli ultimi numeri della serie vincente
(Newl’ink, Acireale, 2012), La festa dell’ultimo anno (Carthago, Catania, 2016). Ha pubblicato le poesie di Omaggio a mr. Berryman (Res in Artibus, 1999), biografia in versi del poeta americano John Berryman; Versi apocrifi (Newl’ink, 2013), Atlante degli addii (Newl’ink, 2017), Salva in memoria (Res in artibus, 2022), Paesaggio con chimere (Gruppo editoriale Bonanno, Acireale-Roma, 2023), La nuova fiera (Res In Artibus, 2024), In linea d’aria (Qed edizioni, 2025). È autore dei saggi Tre versioni della Natività. Botticelli, Baldung Grien, Caravaggio (Newl’ink, 2020) e Dialogo tra nuvole di immagini e parole. Antonello, Baudelaire, Courbet, Moreau (Newl’ink 2021). È stato co-fondatore e caporedattore della rivista internazionale di Lettere e Arti Colophon (1996-2002). Successivamente, ha collaborato con articoli, racconti e poesie alle riviste Nextl’ink (2008-2011) e Newl’ink (2012-2016). Vive a Catania.