Inquiniamo oggi, facciamola finita

Inquiniamo oggi, facciamola finita

Articolo di Gattonero. In copertina foto di Martino Ciano

La bufera urla, disperata. In lontananza, il mare biancheggia e non si capisce se è bianco d’onda, o l’ennesimo travaso delle porcate umane. Le scarpe sono rotte, ma chi se ne frega, fra poco metterò gli zoccoli e li toglierò verso fine settembre se tutto va bene; salvo rottura dei piani per non previsti battesimi cresime matrimoni sepolture e altre cose affini.

Persino il Comune, dopo un lungo periodo di divieto di accesso agli zoccolanti, ha riaperto i battenti ai poverelli che, abitando in riva al mare, ritengono di poter entrare nel tempio comunale scalcagnati e, solo alcuni, ciabattanti. Alle scarpe tornerò ai primi d’autunno. Questo è il momento più favorevole per parlare della famosa/famigerata CO2.

A leggerla così, questa sigla, sembra il secondo girone della serie C di calcio, invece si tratta della rilevazione di gas e porcherie varie che facciamo salire verso l’atmosfera. Da qui ci tornano sulla testa, sulla terra e nei polmoni; e noi, ben consci di quello che stiamo combinando, continuiamo allegramente a sparare verso il cielo di tutto e di più. Così ci troviamo con mari e oceani e laghi e fiumi che tracimano invece che l’acqua di cui sono composti (che è poi l’elemento principe, con l’aria, per la sopravvivenza umana), quello che noi continuiamo a riversarci dentro, nella convinzione che questi siano elementi eterni, indistruttibili.

La Terra, la nostra casa, da vivi e da morti: trasuda letteralmente di veleni, insetticidi, pesticidi, miscugli per conservare, preservare, spingere in quantità la produzione dei frutti. Se un pomo lo si vuole rossiccio da una parte tendendo al giallo perfetto dall’altra, e l’albero non ritiene debba essere così, pronta è la chimica con il prodotto specifico perché ciò avvenga.

L’albero, la prima volta sopporta, in seguito si ammala.

Albero malato?

Pronti: altri intrugli per sanarlo, altri inquinanti, che poi, come tutto il resto, torneranno nel nostro corpo tramite la tavola. La cosa più incredibile di questa situazione è che siamo ben consci della nostra incoscienza, e nonostante ciò continuiamo a vivere, e sempre più a morire, come se queste cose riguardassero un pianeta molto lontano, troppo lontano per destare il nostro interesse al suo salvataggio.

Tanti sono gli accidenti che affliggono l’umanità.

Alcuni risalgono, quasi invariati nei loro sintomi ed esiti, a migliaia di anni fa. La scienza (quella che nel tempo è riuscita a debellare alcuni), oggi è impegnata nella ricerca di cure per malanni evidenziati da alcuni decenni e, ormai è accertato, provocati da noi stessi. Forse i tumori esistono da che la Terra esiste; forse non erano neanche riconosciuti come malattia, ma magari come punizione divina per chissà quali peccati; forse tante cose, tutte con una loro possibile verità.

Ma se i livelli attuali (e crescenti in modo ormai esponenziale), producono un allarme che si limita a seminari, prese d’atto della situazione, a monitoraggi, a statistiche, a ‘dobbiamo fare’, a ‘faremo’… la strada sarà sempre più in salita.

Non siamo più noi, umani-fauna-flora, a essere malati: ormai è la Terra stessa a essere incancrenita.

Noi, che riteniamo essere i padroni di questa nostra Terra, ne siamo solo una propaggine. E, a pensarci bene, neanche la più importante, visto che con guerre, stragi, disastri ambientali, occasionali ma ormai ricorrenti, cui le nostre mani danno il via, ci facciamo fuori a vicenda con una indifferenza che dimostra la nostra poca importanza reciproca sul territorio.

Se davvero fossimo così importanti, il rispetto l’uno verso l’altro dovrebbe essere la caratteristica precipua della nostra intelligenza. Con la stessa indifferenza stiamo uccidendo il nostro pianeta. Siamo ormai al suicidio collettivo, che farà apparire quello di Jonestown come un bucolico picnic.

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