Il custode delle parole. Gioacchino Criaco e “l’Aspromonte” lucente
Recensione di Martino Ciano
Ci ritroviamo ad Africo, nel reggino, paese il cui nome deriva da quel vento caldo, il Libeccio, che unisce l’Africa con l’Europa. Questo borgo sorge ai piedi dell’Aspromonte che non è una montagna malvagia, ma una Madre Bianca, a cui la natura aveva donato anche ghiacciai lucenti. Sulle sue vette i popoli avevano trovato riparo, avevano imparato a vivere con Lei, secondo le sue regole, lasciandosi educare dall’amore di questa donna imponente. La loro lingua è stata per molto tempo il greco antico, custodito dalla buona volontà di pochi, perlopiù caprai che qui passavano la vita. Ed eccoci in presenza del nuovo romanzo dello scrittore calabrese, Gioacchino Criaco, con il quale rivaluta un luogo che nell’immaginario collettivo è descritto solo con attributi negativi.
Il mito è una antica verità
Andrìa è giovane, non ha neanche trent’anni. Come tanti si culla e spera di trovare prima o poi la sua strada. Lavora in un call center per cinquecento euro al mese. Forse gli va bene così. Ha una fidanzata, Caterina. Anche lei fa lo stesso lavoro, ma non si accontenta. I suoi genitori hanno lavorato una vita in Francia per poi tornare in Calabria. Qui hanno acquistato una casa per passarvi la vecchiaia. Non avrebbero mai voluto che lei tornasse nella Regione del Nulla. Caterina avrebbe dovuto fare come i suoi fratelli: diventare francese a tutti gli effetti e, magari, dimenticare le proprie origini. Ma lei, anche quando viveva in Francia, studiava la sua misteriosa Calabria. Caterina crede, anzi spera, nella sua madrepatria. Poi, nella vita di questa coppia appare Yidir, fuggito dalla Libia a bordo di un barcone. Ecco un disperato guidato da una romantica sete di giustizia, simile a quella dei calabresi che emigrano in cerca di fortuna. Ha attraversato il mare e il deserto per ritrovarsi in un altro deserto: l’Aspromonte.
Amo e sono
Dal suo gregge non si è mai allontanato, la sua montagna non l’ha mai persa di vista. Per lui la Madre Bianca è vita, è forza, è morte, ma nell’antica lingua del nonno di Andrìa, morire è sinonimo di volare, ossia migrare da un luogo all’altro. La morte dunque non esiste. Lui è il custode delle parole, dell’idioma della gente della montagna scacciata dai conquistatori, ma anche illusa da quel modernismo o falsa emancipazione che ha fatto scendere tutti a valle. Dimentico d’ogni simbolo e d’ogni affetto, questo popolo ha tradito la propria madre. Per cosa? Per vivere come fuggiaschi? Da precari? Da uomini senza identità, disprezzando il proprio focolare? Lasciandosi rubare le parole di quel greco antico che esprimevano vita, forza e per cui non esisteva la morte e il nulla? Sono queste le riflessioni con cui il lettore farà i conti, soprattutto quello calabrese che in sé avverte nostalgia per qualcosa a cui sa di appartenere, ma a cui non sa dare un nome.
Lotta continua
Ha lottato e continua a lottare il vecchio pastore. Compie atti di sabotaggio contro i sistemi di controllo della diga che ha prosciugato e inaridito la montagna. L’acqua serve a valle, ma anche sulle cime. Protegge la natura, l’habitat dell’Aspromonte, perché la Madre Bianca merita rispetto. Lei è tutto. Il capraio è un eroe romantico, ma soprattutto un uomo che crede nella vera giustizia, quella che si svela nel tempo, quella di Ananke, distante anni luce dai codici e dalle costituzioni dell’uomo che legalizzano la distruzione e l’egoismo. Ma il bello di tutto questo è che lui, il nonno di Andrìa, non è istruito, non sa dire a parole ciò che rappresenta; semplicemente, egli è secondo natura.
L’Aspromonte ritrovato
Mi lancio in un’interpretazione avventurosa, spero di non essere smentito. Criaco dà al calabrese una grossa responsabilità: quella di aver dimenticato la sua identità e di aver contribuito alla distruzione dei suoi luoghi di appartenenza. In questo gioco di collusioni, tradotte in pensieri e fatti, risiede la madre di tutti i nostri mali. L’arrendevolezza, l’accettazione, la cecità hanno contribuito a renderci un popolo debole, in fuga. Tra queste pagine non c’è il perenne ritornello abbiamo tutto, ma il problema siamo noi; no, Criaco non cade mai in questa banalità, ma ci pone davanti un vecchio capraio che vive secondo un’antica armonia. Lì, in Aspromonte, esistono ancora uomini così, capaci di conoscere se stessi secondo misura, vivificando giorno dopo giorno il rapporto con la propria terra. La Calabria è una regione avvolta da mille problemi, ma le cause sono note e al calabrese tocca riconciliarsi con se stesso.