Con Faber alla ricerca di un amico fragile

Con Faber alla ricerca di un amico fragile

Recensione di Paolo Fiore. In copertina: “Abbiamo tutti bisogno di un amico fragile” di Nicola Vacca, Qed Edizioni, 2024

“Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente”.

Mi piace immaginare che proprio questa irraggiungibile dimensione pessoana potesse abitare i pensieri di Fabrizio De André quando, nella canzone Amico fragile, a chi gli disse, ostentando un personale, impudico e arrogante dolore: “Lo sa che io ho perduto due figli” [?] sarcasticamente rispose: “Signora lei è una donna piuttosto distratta”.

Sbeffeggiando e smascherando, in questo modo, l’ipocrisia perbenista e proterva che oggi, nell’espressione di un comico, si definirebbe riconoscibile nella formula della TV del dolore. E ancora col timbro pessoano, quando, citando Benedetto Croce, che dopo i 18 anni solo i poeti e i cretini continuano a scrivere poesie Faber risponde che, allora, per precauzione avrebbe preferito considerarsi un cantautore.

Il più grande poeta italiano degli ultimi cinquant’anni, come lo definì Fernanda Pivano, nutriva dunque un profondo ed autentico rispetto per la poesia e come sempre, proprio riportandoci sistematicamente con i piedi per terra, nel letame dell’umanità, ci fa volare altissimo fino a veder nascere i fiori nelle mille Vie del Campo e lungo tutte le curve della Cattiva strada da cui il perbenismo ipocrita ci vorrebbe lontani.

Come quelle percorse dai ladroni per i quali Faber tranquillizza addirittura Cristo assicurandogli che non gli stanno rubando la scena, di più, esortandolo: “Perdonali se non ti lasciano solo / se sanno morir sulla croce anche loro”. Anzi, prova autentica ne è che Tito, uno dei due, “prova il dolore” non tanto per la propria sofferenza ma alla vista della sofferenza dell’altro, la sofferenza di Cristo e, vedendo quella pietà che non cede al rancore, impara l’amore.

La cifra più profonda di Fabrizio De André, è allora l’autenticità e la sua conseguente, inesausta guerra contro l’ipocrisia. Proprio per questo Abbiamo tutti bisogno di un amico fragile come scrive Nicola Vacca nell’omonima raccolta poetica su Faber (QED edizioni – 2024), perché abbiamo bisogno di rispecchiare in lui la nostra fragilità che poi è l’essenza stessa della condizione umana. Quel “cercare un bacio / [proprio] dove le bocche sono chiuse / [quel] chiedere ascolto / [proprio] dove parole vomitano parole” come scrive Vacca inserendosi nel racconto della rievocazione amara di De André della serata delle ipocrisie raccontata nella canzone Amico fragile.

C’è una Via della croce ed è tra gli umani. Se c’è una porta da aprire, quella deve spalancarsi sulle periferie dell’umanità, nelle galere dei suicidi senza nome, nelle periferie urbane dove si alza il lamento del Cantico dei drogati o si stende il tragico silenzio de la Canzone di Marinella, nel bosco di Sally dove Mia madre mi disse / non devi giocare con gli zingari, sotto i neon dei pronto-soccorso dove sanitari e pazienti si parlano ma spesso purtroppo non si capiscono perché ingabbiati in-luoghi-comuni-e-in-difficoltà-straordinarie, sui fronti di tutte le guerre dove, sistematicamente, ognuno nella sua guerra, come Piero non sente il monito che gli grida Fermati adesso! prima [molto prima!] di varcar la frontiera!

La buona novella di De André è autenticamente inaudita per i nostri tempi tanto quanto era inaudita quella ai tempi di Cristo. Inaudita in quanto apocrifa, nascosta, come lo erano i vangeli apocrifi ai quali lui si rivolge. Faber è autenticamente cristiano in quanto affascinato dalla figura e dal messaggio di Cristo. Un linguaggio rivoluzionario ma pur sempre di uomo nella visione del cantautore ligure: un uomo rivoluzionario che predicava un comandamento nuovo che non scaturiva da una legge esterna, da una divinità, ma da una legge interiore.

Questa è forse la vera essenza dell’Anarchia deandreiana, non, ovviamente, l’assenza della legge ma la legge della legge interiore, la legge dell’autodeterminazione “Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria” come canta in Smisurata preghiera, suo testamento spirituale col suo marchio speciale di speciale disperazione ma sempre ad occhi aperti e senza illusioni poiché, come scrive nell’omonima canzone: “La domenica delle salme / Gli addetti alla nostalgia / Accompagnarono tra i flauti / Il cadavere di Utopia”.

De André, dunque, cristiano per il Cristo uomo, ma blasfemo per il dio a lieto fine [a cui] non credere mai come canta in Coda di Lupo. Certamente, tutt’altro che semplice e agevole la condizione libertaria, infatti, “Ci vuole una grande ostinazione / per essere liberi / nella prigione del mondo” come scrive Vacca in Tutta l’anarchia del mondo, aggiungendo che Manca un grido che ci ricordi che “Il potere divora tutto / a lui interessa solo essere potere” per questo “in ognuno di noi / dovrebbe esserci un uomo in rivolta”.

Quanta assonanza tra De André e Camus! Ma molteplici sono le radici a cui il nostro Faber attinge: la poesia francese del quattrocentesco François Villon di cui riprende La ballata degli impiccati, la vena anarchica di Georges Brassens di cui adatta Il gorilla, entrambe raccolte nell’album Tutti morimmo a stento, e poi la letteratura americana con il ripensamento di alcune poesie dell’Antologia di Spoon River che proprio Fernanda Pivano aveva tradotto, confluite nell’Album Non al denaro non all’amore né al cielo. Purtroppo, annota amaramente Nicola Vacca in una sua poesia, che “è troppo tempo / che stiamo sulla collina / non abbiamo più un sogno comune / qui è una Spoon River senza fine / siamo morti che non sanno parlare”.

Sarà perché tagliamo senza remore le nostre radici, quelle culturali, restando orfani di passato e quelle fisiche degli alberi, esponendoci sempre più a disastri ambientali con nomi troppo simili a Dolcenera che tra le righe e le piene del fiume, nel mezzo della tragedia sa cantare paradossalmente anche la risacca dell’amore, reale o immaginario che sia… per poi usare altrove simili parole “Io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai / Amore che vieni, amore che vai”.

E anche se “l’amore ha l’amore come solo argomento”, come Faber aveva scritto ancora in Dolcenera, alla fine si canterà comunque la Canzone dell’amore perduto poiché, Amare è, comunque, come sostiene, probabilmente a ragione, J. Lacan, “dare ciò che non si ha a chi non lo vuole”. Scrive Nicola Vacca ne Lo sconforto: “Non c’è bellezza / nel mercato delle illusioni / nessuno suona / un valzer per un amore”.

Ma come il Cristo con la Maddalena a cui chiede dove fossero finiti i suoi accusatori, Caravaggio con la prostituta che presta il suo volto a Maria, così De André fa posto a Bocca di Rosa e a Prinçesa nella processione della contraddizione umana risarcendo anche la memoria di Marinella, per la quale, con le sue parole, “non potendo fare niente per restituirle la vita, ho cercato di cambiarle la morte”. Ma per De André cercare autenticamente l’altro significa visitarlo nei suoi luoghi, nella sua casa, nella sua lingua.

Imbarcarsi sul mare, il luogo dove la luna si mostra nuda, rischiarando ombre di facce / facce di marinai, alla volta di isole, insieme di vita e di solitudini, dopo una sosta brevissima a terra, fatta solo per navigare, questa volta, nella barca del vino / emigranti del riso / [ma] con i chiodi negli occhi / giusto il tempo di una notte fino al mattino / padrone della corda marcia di acqua e di sale / che ci lega e ci porta in una «Crêuza de mä», una stradina nel mare, inconsistente e reale allo stesso tempo, rotta materiale e mentale, così simile ai viottoli di Genova… e di tutti i paesi del mondo a strapiombo sull’abisso del mare.

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