Ezio Sinigaglia. Fifty-Fifty. Sant’Aram nel regno di Marte. TerraRossa edizioni

Ezio Sinigaglia. Fifty-Fifty. Sant’Aram nel regno di Marte. TerraRossa edizioni

Recensione di Martino Ciano già pubblicata per Gli amanti dei libri

Si conclude con questo libro il dittico iniziato con Fifty-fiftyWarum e le avventure Conerotiche. Il narratore è sempre Aram/Warum, la scrittura anche è quell’inconfondibile mix di musicalità e simbolismo che ormai Ezio Sinigaglia ha imposto come suo marchio di fabbrica.

Se nel primo libro eravamo davanti all’amore sfuggente, che non si lasciava consumare, che si realizzava solo idealmente tra Aram e Fifì; qui siamo al cospetto della passione giovanile, in cui tutto si brucia e si annienta velocemente. Ma c’è anche un altro elemento da tenere in considerazione. Se nel primo libro l’amore idealizzato è forma fissa, immutabile, eterna e comprensibile solo all’anima, in questa seconda opera tutto è terreno, materiale e degradabile. Tant’è che nelle prime pagine del libro leggiamo una sorta di invocazione a Esculapio, il dio della salute ritrovata, colui al quale si sacrificava un gallo.

La salute ritrovata, ossia la morte. È questo un chiaro richiamo all’Apologia di Socrate? Lasciamo tutto in sospeso, perché non è l’unico input che Sinigaglia dona al lettore attento, che oltre a leggere un romanzo vuole anche comprendere cosa c’è al di là delle pagine. Anche questo secondo volume può essere letto senza domandarsi troppe cose. Siamo in presenza di una trama lineare, di artifizi linguistici, di un flusso di coscienza che gioca con l’intuitività e con una musicalità della parola. Aram è preda della sua memoria: i ricordi della vita militare, ossia il Regno di Marte. Lì la guerra non esiste. È lontana. Si è come ragazzini che giocano a fare gli uomini, che si sporcano con l’esistenza, che selvaggiamente attraversano la linea d’ombra e che come fanciulli in fiore cercano la propria dimensione e la propria forma tra le pulsioni ormonali. C’è qui quell’omoerotismo che non è tensione animalesca, ma linguaggio tra l’uomo e il dio, perché il Demiurgo ha pensato a noi sia carnalmente sia spiritualmente, e dopo la morte, a seconda della nostra condotta, ci reincarneremo in qualcosa che ha a che fare con la nostra precedente natura.

Sarà che Aram sia anche un provetto Timeo? Ma continuiamo, perché anche questa volta, Sinigaglia non dà solo un nome ai suoi personaggi, ma diversi, perché il molteplice è solo il nostro perverso tentativo di ordinare l’Uno. Quell’Uno che a noi appare sempre e solo caotico. Tante cose invece vivono in noi, ecco perché nessuna nostra azione è simile o coerente all’altra. Basta vedere le scelte che fa Sciofí, il milite-amante di Aram. Ed ecco che la storia d’amore, solo platonica, tra Aram e Fifì inizia e finisce sempre in quella villa in Versilia in cui si riannodano i fili della memoria e del destino, giacché un ricordo chiama l’altro e un evento ne genera un altro per pura necessità; tant’è che Aram termina anche la sua ricerca del tempo perduto e scopre che non è stato tempo sprecato, ma spensierato, libero da quel bisogno di attribuire a ogni istante un senso.

Così Sinigaglia ci consegna un’altra opera ironica, allegra, spensierata, ma ricca di quei richiami che la rendono enciclopedica.

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